L’11Maggio del 330 d. C. Flavio Costantino lasciava Roma. L’aveva conquistata diciotto anni prima, armi in pugno, strappandola a Massenzio con la battaglia di Ponte Milvio. Ma, ormai, era tempo di spostare altrove la Capitale. Per ragioni strategiche. D’altro canto Roma era centro dell’impero solo di nome. Diocleziano aveva sempre governato da Spalato. E il controllo della stessa Italia veniva esercitato da Milano. Per tacere degli imperatori militari eletti dalle legioni sul confine danubiiano. Brevi, spesso brevissime stagioni. Senza mai vedere le mura dell’Urbe…
Tuttavia Costantino fece ben altra cosa. Non spostò un centro politico amministrativo. Spostò Roma stessa. O meglio, la duplicò.
Costantino era il Pontifex Maximus. E come tale officiò riti simili a quelli con cui Romolo, nel mito di fondazione, avrebbe fondato Roma. Arrivò al punto di identificare, nella nuova città, Sette Colli. E diede alla vecchia Bisanzio il proprio nome, Costantinopoli, non per mania di grandezza, ma perché così andava fatto. Romolo, Roma. Costantino, Costantinopoli.
Il nome segreto della Città, restò, però lo stesso. Il nome che nessuno poteva osare pronunciare. La Divinità che nel perimetro sacro dell’Urbe era incarnata. Flora, dicono alcuni studiosi. Ma non vi è alcuna certezza.
Oh, ma Costantino non era cristiano?
Beh, qui ci sarebbe da dire molto. Ed addentrarsi in quella, complessa e intricata, materia che è il sincretismo dei primi secoli dell’era volgare. Quando gli antichi culti e il nuovo consistevano. E, spesso, si confondevano. Perché l’immagine delle persecuzioni prima, e del trionfo cristiano poi, che cancella d’un botto i millenni antecedenti, è una olografia inventata molto, ma molto più tardi. E come tutte le olografie, sostanzialmente falsa. E falsificante.
Comunque, quello di cui tento di parlare, è altro. È il fatto che Roma e Costantinopoli non sono due, pur grandi, comuni città. E neppure due città. Sono l’Urbe. La Città. Unica e inscindibile. Una sola, pur nella distanza, nella differenza di popoli, lingue, tradizioni, usi…
Certo, non sto parlando né della Roma, né della Istanbul – che pure dovrebbe significare “Questa è la Città” – odierne. O meglio ordinarie. Due caotici agglomerati. Due formicai.
Un mio amico turco, a lungo a Roma, mi disse, tempo fa: “Quando esco per un appuntamento qui a Roma, non so quando riuscirò ad arrivare. Ma so che arriverò, prima o poi. A İstanbul, non so se mai arriverò…”
Tuttavia Roma e Costantinopoli sono ben altro. Lo specchio, il riflesso l’una dell’altra. I due volti dell’Urbe. La Città per eccellenza. O, se vogliamo, la città cosmica.. Che non ha pari in alcuna altra metropoli. Del passato e del presente.
Iskandar Pala, uno dei maggiori scrittori turchi contemporanei, ha detto che, sì, tutte le strade portano a Roma. Ma quelle stesse strade, tutte, partono da Costantinopoli.
Non credo, però, che si debba pensare a un intreccio di strade fisiche. Sterrate o modernamente asfaltate che siano. Piuttosto a un intreccio di vie interiori. Tra Oriente e Occidente. Che si avvolgono alla fine su se stesse. Poli che si scambiano. Perché Costantino riportò, come ricorda Dante, L’Aquila nel luogo da dove aveva preso il volo. Dietro all’antico che Lavinia tolse…
Qualcuno, forse un’ipotetica lettrice (o lettore, fate voi) potrebbe chiedersi il senso di tutto questo discorso.
La data, certo. Il mese di Maggio, così ricco di echi e suggestioni. Ma anche, anzi, soprattutto, una strana nostalgia. Nostalgia per ciò che non ho vissuto, se non nei libri. Per quella Città d’Oro, dove i Variaghi dell’Imperatore dormivano, ebbri di vino di Cipro cui non erano adusi, appoggiati alle porte delle segrete stanze. Sognando i loro fiordi. E i loro cruenti Dei, avvolti nelle nebbie.
Dove la Grande Flotta becheggiava nella risacca del Porto, avvolta dal profumo di spezie orientali. Ove dotti Monofisiti e Nestoriani disputavano sulla natura di Christo. Dove Paolo Silenziario rinverdiva l’epigramma erotico scrivendo “Gettiamo, Amore mio, le nostre vesti. /Ed avviciniamo il mio corpo nudo / al tuo corpo nudo. /Nulla si frapponga fra noi…”
Nostalgia dei marmi policromi, e dei mosaici Iridescenti. Delle grida dei Peceneghi che assediavano le, inviolabili, Mura…
Ma, forse, è solo un effetto del vino e del silenzio. E dei versi di Yeats, da Sailing to Byzantium:
“Per questo ho messo la vela sui mari / e sono giunto alla sacra città di Bisanzio”
Alla fin fine, solo un desiderio di Luce.