Mi dicono, antichi amici, che a Trieste si avvertono i primi soffi di Bora. Un accenno, o meglio un assaggio appena. Neppure un vero “Borino”… solo un presagio della stagione appena iniziata… Però, mentre qui, a Roma, soffia uno Scirocco gravido di umidità e pioggia, lì le raffiche del vento sono già fredde. E pulite. O per lo meno così le immagino, con gli occhi del ricordo.
La Bora è infatti un ricordo vivido. E una nostalgia. Difficile da spiegare a chi mai ha vissuto Trieste. No, non è un errore di battuta. Ho detto proprio “vissuto Trieste” e non “vissuto a Trieste”. Perché sono due cose molto diverse. Uno può vivere, o meglio abitare, risiedere per anni in una città, senza averla mai davvero vissuta. Restando sostanzialmente qualcosa di estraneo. Alieno. Una sorta di parassita che si nutre di una pianta. Senza, però, esserne parte.
E questo è vero soprattutto per quelle città che hanno un’anima molto definita. E particolare. Come Trieste, appunto.

Le città hanno un’anima. E l’anima di Trieste è la Bora. Un vento particolare. Diverso. Mutevole. Capace di fare disastri e, al contempo, di infondere una insolita, e inspiegabile, allegrezza.
La Bora è un vento freddo. Gelido addirittura. È il Buran che soffia dalle steppe dell’est, e giunge ai Balcani, sfogando la sua ultima furia nel golfo della città Giuliana. Oltre, sino a Venezia, giunge solo come refoli improvvisi.
Gli antichi greci, la conoscevano bene. E la consideravano un Dio. Borea, che Omero chiama “fecondatore di cavalle”. Le cavalle della Tracia, che pascolavano libere tra le pianure di quelle che, oggi, chiamiamo Bulgaria e Turchia europea. E che generavano puledri famosi per la loro velocità. Veloci, appunto, come il vento.
La Bora, per chi non vive a Trieste, è un fastidio. O peggio qualcosa che rende difficile la vita. Come l’acqua alta a Venezia. Ma per chi ha sentito spirare il grande vento nella giovinezza, la Bora è soffio vitale. E gli infonde una carica particolare. Qualcosa che, invece di paralizzarlo, lo pervade di entusiasmo.. Gli dona slancio. Creatività. Voglia di fare e di rischiare.
Ho ricordi intensi dei giorni di Bora. Anzi, rimembranze. La memoria sensibile. Quella che mi fa sentire il vento sulla pelle, come se fossi ancora lì, tra i moli del porto e le erte di San Giacomo e San Luigi, che quando la Bora, nell’inverno, si faceva Nera, ghiacciavano. E per camminare si dovevano mettere sotto le scarpe delle specie di ramponcini. E tenersi alle corde tese tra anelli sui muri delle vecchie case, altrimenti si scivolava di brutto. Anzi, si volava, letteralmente, via.
Erano le giornate in cui, nelle trattorie e, soprattutto, nelle birrerie – vere stübe alla tedesca, non le odierne, cattive, imitazioni di pub americani – si mangiava la jota. Una zuppa calda e profumata, fagioli borlotti e patate passate, il soffritto di cipolla, aglio, pancetta, i crauti, il lardo, il cumino che dona quell’aroma speziato e amarotico… e altre spezie. Ogni trattoria, ogni famiglia aveva la sua ricetta. Ma era la zuppa del freddo. Perfetta per dare calore. E forza. Quando soffia la Bora, e la si sente ululare per i vicoli che le fanno da cassa di risonanza. E divengono strani strumenti musicali. Una dodecafonia naturale. Perché anche la musica dodecafonica è già presente in natura. La musica di Schönberg viene, forse, proprio da questo vento che soffia dai Balcani in tutta l’Europa centrale. Così come i colori del suo amico Kandinskij sembrano riflettere le luci del Carso in autunno.
Intendiamoci. Queste sono solo sensazioni che vengono dalla memoria. Nessuna pretesa di critica artistica e musicale. A scanso di equivoci…
Comunque la jota si accompagnava bene con una birra leggermente amara. E forse ancor meglio con un bicchiere di rosso pastoso e un po’ rozzo. Dico bicchiere, non calice. Perché quel vino andava bevuto in capaci bicchieri tozzi e larghi. Da cucina, venivano detti, perché li si trovava un po’ in tutte le case popolari. I calici sono roba da enoteche, roba da, presunti, intenditori. Che degustano…quel vino lo si beveva, tracannava, con gusto primitivo. Senza sofismi. Perché era buono. E ci scaldava le vene. E la mente. Accendendo infinite discussioni. Fantasie. Sogni.
Perché i giorni di Bora hanno qualcosa di onirico. E Trieste, il Carso, divengono una terra di sogni. Sospesa fuori dal tempo. O, meglio ancora, in un tempo altro. Mitico. Terra di giganti della brina, e di streghe che volano, ridendo, nel vento.
Risa che, una volta sentite, restano per sempre in qualche angolo della memoria….