“La pipa esige calma, interiore livello filosofico, sublime pacatezza dell’anima. Le sue delizie sono infinite e non tutti vi possono accedere senza adeguate risorse religiose. Bisogna conquistare anche quel fumo ormai sapiente da secoli”.
A scrivere questa frase su Repubblica nel lontano 1992 fu Gianni Brera, uno dei più capaci, influenti e stimati giornalisti sportivi di sempre. Egli riuscì a raccontare lo sport, ma soprattutto il Calcio, con metafore colorite e funamboliche, colte ma popolari. Per lui Gigi Riva (o meglio “Giggiriva”) era Rombo di Tuono, Gianni Rivera L’Abatino, Roberto Baggio il Divin Codino: nomignoli che sono rimasti addosso ai personaggi citati ben oltre il momento in cui Brera li coniò. Chi mai, oggi potrebbe permettersi il lusso, che lui si concedeva spesso, di scrivere frasi come: “Maradona, come tutti puro isso, cura lo suo particulare: ma questo non toglie che, eccellendo di per sé, egli esalti anche la squadra di cui è per solito gran parte. In effetti, Maradona è un carico da undici rinforzato: nessuno scopre nulla affermandolo. È un genio della pelota, dell’invenzione prestipedatoria, dell’esecuzione tecnica cum phantasia”.
Ma come si diceva Brera fu gran fumatore soprattutto di pipa, di cui fu un vero testimonial. Anche se qualcuno afferma che le preferisse il Toscano. Ma si tratta di una questione controversa. In ogni caso egli ebbe a scrivere: “Anche il sigaro va conquistato. E’ una goduria greve e forte, del tutto priva di frivole moine. La bocca si riveste di una gromma rugginosa sulla quale, sfregato, si accenderebbe anche un fiammifero di legno. Il vantaggio pratico è dato dal fatto che il fumo della boccata non si manda nei polmoni, resta in bocca: al più si espelle dal naso. Se reggi alle fiammate di quell’inferno, puoi chiamarti beato, ma può succedere che, a digiuno, ti si accorci lo stomaco, ti vengano gli stranguglioni come agli allocchi inciucchiti per sfregio dalla cicca ficcatagli nel becco”. E sul fumo in generale: “Io intendo fumare fino all’ultimo fiato. Poi che si arrangi la mia emoglobina. Vivere senza fumo sarebbe come dormire senza sogni”.
E come si può dimenticare Gipo Farassino, lo chansonnier torinese che cantò la sua città e il Piemonte tutto utilizzando il suo dialetto. Gipo fu un grande: riscoprì le antiche canzoni che sonnecchiavano da decenni tra le pagine di Costantino Nigra e di Angelo Brofferrio; ne compose di nuove in cui cantava tutto l’orgoglio dell’aristocrazia operaia che si era formata nelle scuole Fiat nell’immediato dopoguerra; cantò la nostalgia, la terra, le tradizioni con abbondanti manciate di comicità mista a malinconia; a teatro recuperò i monologhi esilaranti di Carlo Artuffo ma anche la tragicità di Vittorio Bersezio di cui rispolverò e interpretò Le Miserie ‘d monsù Travet.
Fu grande amante della pipa, e vale la pena di ricordare una delle sue canzoni più famose: ‘L Testament, nata sulla scia di Georges Brassens (Le testament, 1955) e Jacques Brel (Le moribond, 1961), e di Fabrizio De Andrè (Il Testamento, 1962). Dice così:
“Quand che mi sarai mort […] ‘na cosa sola al mund / pudrai nen suportè / tocheme pa mie pipe / eh, no, giurapapè / pieve la fumla, l’ort / la ca, le boce e i can / ma giu le man dal banc / le pipe as toco nen / chi a tocherà mie pipe / lo giuro ‘nsima ai sant / cun ben l’hai mai cherduie / a deuvrà rendme cont / la neuit al fond dal let / ij tirerai i pe / E per mandeme via / saran pa suficient / né corn né Avemaria.
(Traduzione: Quando sarò morto […] una cosa sola non potrò sopportare: non toccate le mie pipe, e no accidenti! Prendetevi mia moglie, l’orto, la casa, le bocce e i cani, ma giù le mani, le pipe non si toccano! Chi toccherà le mie pipe, lo giuro su tutti i santi, anche se non ci ho mai creduto, dovrà rendermene conto: di notte, al fondo del letto, gli tirerò i piedi. E per mandarmi via non sarà sufficiente né fare le corna né pregare).