Questa è la prima volta in cui ho la piacevole occasione di leggere un romanzo di Filippo Boni (1980), giornalista, studioso ed appassionato di storia del Novecento e degli Anni di Piombo, i cui studi e la cui passione traspaiono in maniera evidente nei suoi libri, (tra i più noti citiamo “Gli Eroi di Via Fani” e “Giorgio Vestri”).
In questo romanzo, suddiviso in 19 capitoli (in aggiunta a “Quel segno del cielo”: una delle più toccanti introduzioni che abbia mai letto), vengono trattati con acutezza ed emozione tutti gli avvenimenti legati alla travagliata storia di Bruno Bertoldi, classe 1918, protagonista del romanzo, nato in un campo di concentramento durante la Prima Guerra Mondiale.
Bertoldi visse in prima persona il massacro nazista dell’esercito italiano a Cefalonia e la sua storia, che trovò un lieto fine, è una delle più importanti testimonianze che ci pervengono dell’eccidio della Divisione Acqui.
In 312 pagine vengono perfettamente descritte dall’autore le avversità con cui, per anni, il protagonista ha dovuto scontrarsi, e durante tutto il corso della storia vengono messe perfettamente in evidenza le sensazioni di ogni incontro, di ogni disavventura e di ogni viaggio del personaggio principale.
Già dalle prime pagine, infatti, traspare in tutto e per tutto la situazione quasi costante di ”equilibrio precario” vissuta da Bertoldi; (citazione utilizzata nel racconto per descrivere un momento di instabilità fisica del protagonista, ma che permette anche di comprendere la precarietà della vita del personaggio lungo tutta la storia).
Il romanzo, scritto con la tecnica della narrazione in terza persona, riporta tutti i ricordi di Bruno Bertoldi, salvatosi dall’eccidio dopo essere stato fortunatamente riconosciuto da un soldato tedesco che aveva conosciuto anni prima.
Ma Bertoldi non conobbe soltanto i dolori di questa vicenda; da quel momento in poi iniziò per lui una vera e propria odissea: venne infatti successivamente portato al Lager di Leopoli, (in Ucraina), dove venivano rinchiusi i prigionieri italiani, polacchi, francesi ed inglesi, dopo essersi consegnato ai tedeschi ed essersi poi rifiutato di indossare l’uniforme di questi ultimi.
E le sue traversie non finirono qui: da Leopoli venne trasportato in un altro campo di lavoro, a Minsk, in quanto meccanico ed autiere, e finì nelle mani dei partigiani polacchi insieme ad altri 3 italiani, dopo che i tedeschi abbandonarono i prigionieri al loro destino, per poi finire in Russia, a Mosca e terminare la sua avventura in un campo di detenzione a Tambov, nella parte sud-occidentale del paese.
Dal punto di vista della scrittura, una caratteristica del libro che mi ha molto colpito è stata il modo in cui i ricordi del protagonista vengono raccontati nel dettaglio, permettendo al lettore di immedesimarsi completamente in quest’ultimo per vivere le sue stesse emozioni.
Uno di questi, è il ricordo del vento gelido che tirava a Minsk: “talmente tremendo che la sola divisa non bastava per coprirsi”.
Tra gli altri, spicca anche il ricordo del vizio del kapò del lager di Leopoli, che ogni mattina si affacciava sulla soglia della porta e con una chiave rigava con forza una lamiera producendo un rumore così fastidioso che anche distanza di anni è rimasto ben impresso nella memoria di Bertoldi.
Ciò che aiuta il lettore a fondersi con il protagonista, infatti, sono proprio le memorie ed i minimi dettagli utilizzati per l’intera ricostruzione storica, oltre che per le descrizioni sia fisiche che ambientali.
La storia che Filippo Boni ha scelto di riportare non è affatto facile, ed il modo in cui è stata scritta, mai pesante o banale, è un ulteriore punto di forza, poiché risulta di facile comprensione, adatta a tutti e particolarmente scorrevole anche grazie all’eccellente utilizzo del discorso diretto.
Aggiungo, infine, che il susseguirsi degli avvenimenti, che determinano anche l’evoluzione del personaggio, sono stati raccontati in modo estremamente realistico e profondo.
In conclusione, questo romanzo mi ha letteralmente conquistata fin dalle prima pagine, e si è rivelato un vero “colpo di fulmine”; motivo per cui lo consiglio a tutti coloro che volessero avvicinarsi alle vicende di questo periodo storico travagliato per comprendere il significato della vita dell’epoca attraverso una vicenda reale, giunta a noi tramite una delle maggiori testimonianze.