Venezia è la città del Carnevale. E delle maschere. Non per nulla la Commedia dell’arte prima, il grande teatro del ‘700 poi, parlavano essenzialmente veneziano. Il pensiero, ovviamente, corre subito al gigante. A Carlo Goldoni. Ma c’ erano anche gli altri. Il tradizionalista Chiari. Il favolistico Gozzi, che anticipò i Romantici, ma con un tocco diverso di leggerezza, oserei dire, rococò… E poi, più indietro, la sensuale Venexiana cinquecentesca, di autore, più che anonimo, avvolto nel mistero. E potrei continuare…
Ma non è solo per questo. Anzi, questo è semmai un portato, non la causa. E altrettanto certamente vi sono altre città legate alle feste carnascialesche. Viareggio coi suoi carri allegorici. Putignano… La grandiosa sarabanda di Rio de Janeiro…
Ma Venezia è altra cosa. Non solo la location – come usano dire i moderni snob – di un gran bell’evento. Di una serie di feste e manifestazioni…
Venezia è il Carnevale. Lo incarna nella sua anima, e in quella struttura dedalica di calli e campielli che, a tratti, si specchiano sull’acqua. In quel suo essere sostanzialmente… sospesa. Tra la terra e il mare. Un non luogo. Fuori dal tempo. Da ogni tempo. Una sorta di portale per un’altra dimensione. Che nulla ha a che fare con quella che chiamiamo modernità. E che, non a caso, suscitava l’ira, o per lo meno l’irritazione, di F. T. Martinetti.

Ugo Pratt, che aveva sangue veneziano, ha saputo incarnare questa sensazione con le sue chine. E la sua penna di grande narratore. In particolare con quella “Corte sconta, detta Arcana” in cui entra Corto Maltese. Per ritrovarsi subito dopo nelle immensità della Siberia, tra le guardie bianche del Barone von Ungern… Altro luogo e altro tempo…
Basta aggirarsi per le calli, in una notte fra Gennaio e Febbraio, per comprendere come quella di Pratt non fu, semplicemente, una geniale invenzione artistica. Fu, piuttosto, una visione.
Nelle notti, e nelle brume invernali di Venezia, appaiono e scompaiono di continuo strane figure che sembrano venire dal passato. O da un insondabile nulla. E subito tornarvi. E i campielli, deserti, risuonano all’improvviso di passi… Di risa evanescenti nella lontananza. Talvolta anche dell’incrociarsi di due lame…
Maschere… Dame e cavalieri settecenteschi. I loro giochi. I loro amori leggeri ed intensi, come se avessero preso sostanza alcune pagine dei Memoirs di Casanova. O di quelli di Goldoni, ché, in fondo, i due si somigliavano davvero molto. Tanto da far sospettare…
Talvolta, dietro un angolo di muro, rosso e corrotto dal salso, nell’ombra di un sottoportego, è possibile intravvedere la smorfia di Arlecchino, e il balenare cangiante del suo costume…
Un Arlecchino che, forse, accenna, col gesto caricato e lento del commediante dell’arte, di seguirlo. Cenno silenzioso. Invito inquietante, verso quell’ombra che si estende ben al di là del poco che ti è concesso di vedere.
Concesso da una Luna che illumina paesaggi, e architetture, incantati. Così belli da sembrare… irreali. Solo sognati.

Vorrei essere lì. Tra quella nebbia in questo inizio di Carnevale veneziano. Certo, so che la città è vuota la sera. E che, di giorno, vi si muovono figure allucinate, con maschere prive d’espressione, adatte più ad un incubo di Fritz Lang che a una sarabanda carnevalesca… Lì, a Venezia, come a Roma… come ovunque oggi in Italia…
Però, il vuoto ed il silenzio, la nebbia, sicuramente vedono aggirarsi demoniaci Zanni e Arlecchini. Non fantasmi presenze vive, di un Carnevale eterno. Una porta tra i mondi che nessun decreto o decretino può chiudere. O proibire.