Cancel culture, la “cultura della cancellazione”. Il termine, a lungo discusso in America e nei paesi anglosassoni, si è recentemente inserito anche nel dibattito italiano. Spesso, per svariati motivi, si sovrappone al concetto del politicamente corretto. In realtà è un termine molto complesso che contiene multiple accezioni, che ad oggi convergono nell’uso di un linguaggio rispettoso per le minoranze.
Le origini storiche
Non abbiamo inventato nulla, i Greci avevano pensato già a tutto. Oggi abbiamo la cancel culture, loro avevano l’ostracismo. La democrazia ateniese prevedeva che chi rappresentava un pericolo per la città sarebbe dovuto andare in esilio per 10 anni. La decisione avveniva tramite dei cocci (il termine greco “ostrakon” significa proprio “coccio di terracotta”) sui quali i componenti dell’assemblea popolare indicavano il nome della persona da esiliare. Il quorum da raggiungere era di 6000 voti. L’istituzione aveva valore giuridico ed era nata con lo scopo di difendere la democrazia. Si era ben presto trasformata in un mezzo per esiliare gli oppositori politici, tramite brogli e corruzione dei cittadini votanti. L’esilio colpì addirittura Temistocle, eroe della battaglia di Salamina del 480 a.C., che venne ostracizzato per favorire la politica dell’avversario Cimone.

Gli antichi romani utilizzavano invece la pratica della damnatio memoriae allo scopo di eliminare completamente le tracce di una persona. La pena era in genere riservata ai traditori e ai nemici dello stato. Prevedeva che nome e cognome del condannato, così come eventualmente tutte le sue raffigurazioni e i suoi scritti, fossero cancellati. Poteva avvenire post mortem o addirittura quando la persona era ancora in vita. In quest’ultimo caso la condanna significava la fine della propria vita civile.
Altre tracce e sfumature di cancel culture si ritrovano nell’indice dei libri proibiti. L’elenco, creato da Papa Paolo IV nel 1559, prevedeva che tutti i libri ritenuti eretici fossero eliminati dalla circolazione. La selezione spettava alla Santa Inquisizione, ma ben presto diventò pratica anche dell’Inquisizione spagnola, diretta dai re cattolicissimi Ferdinando d’Aragona ed Isabella di Castiglia. Non pochi autori, temendo la condanna delle proprie opere e, di riflesso, della propria persona, iniziarono ad autocensurarsi. L’elenco fu aggiornato fino alla prima metà del XX secolo e soppresso ufficialmente nel 1966.

La Cancel Culture oggi
Il dibattito sulla cancel culture è complesso e dalle molteplici sfumature. Negli Stati Uniti nasce come forma di pressione verbale da parte di chi vuole che un datore di lavoro licenzi o punisca un dipendente perché ha fatto o scritto cose disdicevoli, anche al di fuori dell’ambiente lavorativo. La pratica si è oggi estesa agli utenti del web che, in massa, richiedono a una casa cinematografica, editrice, a un’università o a un’azienda il licenziamento di un dipendente a causa di una condotta ritenuta immorale. Il fenomeno acquisisce sempre più rilevanza perché spesso il datore di lavoro, per evitare boicottaggi di massa (il non acquisto di un libro o la non visione di un film, per esempio) acconsente alle richieste dei potenziali clienti. La rimozione del soggetto preso in causa e tutte le sue produzioni, di qualsiasi genere siano, avviene a priori, nonostante non ci sia una condanna formale da un tribunale.
Alcuni esempi
Eclatante il caso di Donald Trump, rimosso da Twitter per aver postato frasi che incitavano alla violenza. O quello di Woody Allen, accusato dalla ex moglie di aver commesso violenza sulla figlia adottata, i cui partner commerciali si sono rifiutati di distribuire i suoi film e stampare la sua autobiografia. O ancora l’attore Kevin Spacey, allontanato da tutti i set cinematografici, per una presunta violenza sessuale. Risultano casi di cancel culture anche la volontà di non permettere la visione di “Via col vento”, ritenuto portatore di messaggi retrogradi e discriminatori e la la recentissima polemica sul “bacio non consensuale” del principe azzurro nei confronti di Biancaneve.