Circondato da montagne, ricco di verde e di laghi, con la possibilità di mangiar bene e bere meglio tra castelli e archeologia industriale. Cosa manca al Canavese – il territorio a nord di Torino e che confina con la Valle d’Aosta – per diventare una meta turistica di buon livello? La mentalità. La capacità di far rete, di far sistema. Mancano i grandi progetti non per l’impossibilità di realizzarli ma per l’incapacità di sostenerli. Nel corso degli ultimi decenni (non anni ma decenni) ci si è cullati nell’illusione di creare un parco divertimenti del futuro o un autodromo.
Non si è fatto nulla. Scelta magari sacrosanta, anche per garantire una maggior tutela ambientale. Però nulla ha sostituito i progetti cancellati. Manca la volontà di promuovere un territorio che avrebbe molto da offrire al turismo di prossimità e non solo a quello. Invece il Canavese continua ad essere ai margini di tutto. Scendono i valdostani per un pranzo tranquillo, salgono i torinesi per una sosta mentre raggiungono la Vallée. E poco più.
Già oltre Ticino si fa fatica a collocarlo, il Canavese. Ed a collegarlo con Ivrea. Non si sa dove sia, non si sa cosa sia. Una costellazione di realtà separate che hanno difficoltà a mettersi insieme. Castellamonte e Settimo Vittone, Carema e Pont Canavese. Luoghi sconosciuti ai più. Persino la promozione del vino di maggior pregio, il Carema appunto, è estremamente carente. Uno dei Nebbioli del Nord Piemonte e che, in passato, era utilizzato anche per l’immagine vitivinicola della confinante Valle d’Aosta. Ma ora la regione alpina ha lanciato i suoi vini ed il Carema è stato ingiustamente dimenticato.
Si salva l’Erbaluce, altro vino canavesano, che gode di una promozione assidua e ben fatta. Ma poi ci si ferma lì. Qualche ristorante compare, per un attimo, nell’ambito di progetti più vasti, ma poi scompare perché da solo non ha la mentalità per proseguire con iniziative per farsi conoscere ed apprezzare. La gastronomia del territorio non viene valorizzata, affidata al ricordo lontano di qualche differentemente giovane che rimpiange ajucche, miassa, salignon, o il salampatata. Prodotti difficili da trovare e sostituiti da una cucina che ignora il territorio.
Ma non va molto meglio per la promozione di rocche, castelli, antiche fabbriche. Certo, molti ricordano l’Olivetti e le iniziative, anche architettoniche, di Adriano. Valorizzate ma non promosse adeguatamente all’esterno. E dopo la morte del fondatore, anche la comunità di Damanhur ha smesso di essere una grande attrattiva nonostante l’affascinante tempio sotterraneo.
Un destino inevitabile per un territorio periferico? Macché. Basterebbe seguire l’esempio del Monferrato. A lungo emarginato rispetto ai grandi flussi turistici della vicina Langa, ma ora in fase di grande rilancio grazie all’iniziativa dei sindaci locali. Capaci di mettersi in rete, di valorizzare ambiente, enogastronomia, tradizioni e storia. Grande storia, quella del Monferrato, certo. Anche se sconosciuta ai più in un’Italia priva di memoria. Ma anche il Canavese ha una grande storia alle spalle. Celtica, romana, medievale. In fondo il primo re d’Italia era canavesano. Non se lo ricorda più nessuno, nonostante la celebrazione di Carducci. E non se lo ricordano, soprattutto, coloro che dovrebbero far conoscere il Canavese al di là dei confini della provincia torinese.