Il 17 gennaio scorso il Governo italiano ha varato un decreto che fissa il 25 marzo quale “Dantedì”, vale a dire il giorno in cui si dovrà celebrare la memoria di Dante Alighieri. In realtà la giornata legata al ricordo del grande poeta fiorentino partirà il prossimo anno, quando cadranno i settecento anni dalla sua morte, avvenuta a Ravenna nella notte tra il 24 e il 25 marzo del 1321.
Ma a partire da quest’anno l’Associazione degli Italianisti, con in testa il presidente Gino Ruozzi e il dirigente del Gruppo Dante Alberto Casadei, ha proposto che già il prossimo 25 marzo studenti e insegnanti delle superiori leggano e commentino il XXVI canto dell’Inferno, quello, per intenderci, che racconta l’ultimo viaggio di Ulisse. Naturalmente, vista l’emergenza sanitaria legata al Coronavirus dovrebbero farlo attraverso collegamenti online. E magari, sempre nelle intenzioni dei promotori dell’iniziativa, dovrebbero farlo tutti insieme a mezzogiorno.
Risparmiamoci le facili ironie che accomunerebbero questa iniziativa alle canzoni cantate dal balcone piuttosto che agli applausi.
Ciò che stupisce, ed incupisce, è la scelta del passo, quel “fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir vertute e canoscenza”, che l’eroe omerico pone alla fine della sua “orazion picciola” per rendere i suoi compagni “aguti” ad andare al di là dei limiti che Dio ha imposto all’uomo.
Evidentemente i dotti dantisti abbracciano la tesi secondo la quale Ulisse sarebbe l’eroe che mira a superare la propria ignoranza, dimenticando che Dante lo spedisce nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio (tra “l’anime più nere”), dove sono condannati – si badi bene “condannati” – i consiglieri di frode: in altre parole coloro che spingono altri a commettere delle frodi, macchiandosi di un peccato ancor più grave di quelli che li hanno ascoltati. Una colpa che si ripete nel racconto dantesco proprio con quelle sue parole che si concludono con le due terzine citate. Ciò che condanna Ulisse all’Inferno è la sua “hybris”, che nel suo caso rappresenta più che in altri la prevaricazione dell’uomo contro il volere divino.
Ma si sa: la lettura illuministica di quel passo è riuscita a stravolgerne il significato originario, fino a far diventare Ulisse colui che “sconta con una morte da eroe la sua <ascesi umanistica>, vittima irredenta di un’arcana ingiustizia” (Vittorio Sermonti).
A parte ciò, sarebbero tante le pagine che varrebbe la pena di leggere giovedì della settimana prossima, a prescindere da quella proposta che già fa parte del repertorio di tutti gli insegnanti di Lettere, che, detto per inciso, non amano Dante: troppo medievale, troppo cristiano, troppo filoimperiale; in una parola, troppo reazionario.
Ma tanto non crediamo che, con le scuole chiuse e le preoccupazioni che assillano tutti, saranno molti a dar seguito a questa lodevole iniziativa.
Speriamo che il prossimo anno, in occasione del primo e vero Dantedì le cose possano andare in modo differente. In tutti i sensi.
1 commento
Ulisse è condannato per le sue azioni precedenti, non per “il folle volo”, che di fraudolento nulla ha.