“Poi che ora so che il tempo è sempre il tempo / e che lo spazio è sempre ed è soltanto spazio /e ciò che è reale lo è solo per un tempo /e per un solo spazio / godo che quelle cose siano come sono…”
Era religioso T. S. Eliot. O per lo meno lo era diventato formalmente. Anglicano della High Church. Ma questo faceva parte dell’abito inglese che lui, americano per nascita, aveva voluto indossare. La sua religiosità interiore, se così vogliamo chiamarla, era altra cosa.
“Mercoledì delle ceneri”. Uno degli approdi più complessi da decifrare della sua poetica. Poetica sempre complessa, criptica, nonostante la tersità del dettato. La cristallina purezza del verso. Perché, alla fin fine, Eliot si misura sempre con la Morte. Qui in modo più esplicito che altrove. E la Morte è difficile da accettare. Perché è difficile, arduo, accettare la vita.
“Per ch’io non spero di tornar giammai…” questo è Cavalcanti. La ballata scritta in esilio, poco prima di morire per febbri. Presumibilmente malariche… già… si moriva anche di malaria nella nostra Penisola. E non nel remoto ‘200. Sino a un secolo, scarso, fa. Fino alle grandi bonifiche, che volle uno che è meglio non nominare, oggi… Però si continuava a vivere. Si è continuato a vivere.
Eliot cita proprio questo Cavalcanti nell’ incipit. Per ch’io non spero di tornar giammai…
Mercoledì delle Ceneri è, per me, un ricordo abbastanza remoto dell’infanzia. Mia madre mi portava alla chiesa della Salute. Quella di Mestre, non la grande basilica veneziana. Non si seguiva la messa. Era troppo affollata, neppure chiesa parrocchiale, se non ricordo male. Ci si metteva in ginocchio, e il prete – don Gino, cappellano del vicino ospizio, un pretone rubizzo sempre allegro – si avvicinava con aria, insolitamente solenne, e ti tracciava sulla fronte una croce con la cenere. Memento morì. Eri polvere e polvere ritornerai.
La cosa faceva impressione. Ancor di più perché don Gino noi ragazzi si era abituati a vederlo ridere e scherzare, sempre preso ad organizzare attività sportive e ludiche. La sua grande passione, che condivideva con mio nonno, di cui era grande amico. Anche se nonno la chiesa non la frequentava mai.
Ma in quella occasione non c’era da scherzare. E don Gino era prete vero, e lo sapeva. Con le Ceneri non si scherza. Non per nulla segnano la fine del Carnevale…
Ricordati che devi morire. E quindi impara a dare il giusto valore alla tua vita. In fondo ciò che ci dice Eliot nel suo poemetto. Quando parla del tempo. Ciò che è reale lo è solo per un tempo /e per un solo spazio…
La paura ossessiva della Morte, della nostra morte, che è, ormai, divenuta il tema di fondo delle nostre esistenze, nonché lo strumento di un potere oppressivo come mai prima nella storia, nasce proprio da questo. Dal fatto che non ci ricordiamo più che morire si DEVE. Punto. Come e quando non è dato sapere. Ma si deve. È ineluttabile e inevitabile.
Una verità semplice. Che per tutta la sua storia l’uomo ha avuto sempre ben chiara e presente. Ma che oggi ha scordato. Di qui il dramma. Che non è la morte, bensì il rifiuto di vivere per paura di morire. La farsa tragica di questi due anni lo sta a dimostrare. Farsa ancora non conclusa. Anche se la narrazione ufficiale sta spostando l’attenzione dal temuto Covid ad una nuova, temuta Guerra. Che mette in pericolo le nostre vite. Preziose, tanto preziose, per noi, che non le viviamo per paura di consumarle.
E anche qui non ricordiamo. Le guerre, come le epidemie ci sono sempre state. Anche, forse soprattutto in questi decenni. Mentre noi ci si baloccava con la fantasticheria di poter divenire immortali grazie ai progressi di una scienza, ormai sempre meno scientifica. E sempre più grande illusione luciferina.
Si moriva di guerra e malattia tutto intorno a noi, rinchiusi in quella sorta di bolla artificiale che, chissà perché, chiamiamo Civiltà Occidentale. E che sembra le cupole dove vivono immortali élite a spese del resto dell’umanità nel film “Zardoz” del lontano 1974. John Boorman lo girò con pochi mezzi. Ma Sean Connery vi diede una grande interpretazione. Andrebbe rivisto, perché è un film che sembra anticipare ciò che è accaduto. La grande illusione. Il grande inganno.
Nel quale ci siamo crogiolati. Mentre nel resto del mondo, o meglio nella gran parte del mondo, si moriva di ebola, tifo, lebbra, influenza. O semplicemente di fame e sete. E non dopo aver vissuto ottanta e più anni…
E vi erano le guerre. Solo per restare a questi ultimi decenni, Bosnia, Kosovo, Yemen, Siria, Libia… potrei continuare…
Non ce ne curavamo. Non erano le nostre guerre. Non le nostre epidemie e carestie. Noi vivevamo al caldo d’inverno, quando nella Mosca di Eltsin la gente moriva assiderata nelle strade. Andavamo in vacanza mentre in Africa si consumava un genocidio per fame…
E abbiamo scordato che, prima o poi, si deve morire. Gli individui, così come i popoli e le civiltà. Spengler aveva visto giusto. Con largo anticipo.
Ora io non voglio fare il profeta dell’Apocalisse. Non è nel mio carattere. E non ne ho le qualifiche. Altrimenti sarei, forse, ospite del circo mediatico.
Però mi viene in mente la Cerimonia delle Ceneri. Di cui pare che anche i preti, oggi, abbiano dimenticato il senso. Tant’è che portano la mascherina mentre la celebrano. E mi viene in mente, soprattutto, il verso di Eliot che citavo prima
“godo che quelle cose siano come sono”
La Quaresima ha inizio.