Ci sono molti modi per celebrare i 70 anni dalla morte di Cesare Pavese, uccisosi il 27 agosto 1950, a Torino, in una camera dell’albergo «Roma» con dieci bustine di sonnifero. Solo un’annotazione a penna, sulla prima pagina dei “Dialoghi con Leucò”, sul comodino: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.” Aveva quarantadue anni. Pavese era nato il 9 settembre del 1908 a Santo Stefano Belbo, un paesino sulle colline di Langa, in provincia di Cuneo che, assieme alla Torino della vita adulta, divennero teatro del suo disagio interiore e di inadeguatezza nei confronti della vita. Così quelle colline natie e la città adottiva videro come protagonista più la sua coscienza che non la realtà esterna accentuando la sua irrequietezza di vivere.
Il Festival Nazionale Luigi Pirandello ha organizzato, in collaborazione con la Rai, per il ciclo Archive Alive, la proiezione di un raro filmato in bianco e nero di Davide Lajolo. Il filmato si intitola « Le Langhe di Cesare Pavese » ed è un cortometraggio di circa 40 minuti, dove il direttore del Festival, il regista Giulio Graglia, ricorda i celebri romanzi dello scrittore: «La luna e il Falò », « Paesi tuoi », « Feria di Agosto ». Giulio Graglia nel cortometraggio raccoglie i versi tratti da « Il mestiere di vivere » e da alcune lettere private. Per raggiungere un vasto pubblico il regista ha dovuto ricorrere alla visione streaming. Il filmato è già visibile sul sito della Teche Rai e potrà essere visionato anche in futuro.
Indimenticabili sono i versi dedicati da Lajolo all’amico scomparso confortato dal «…comune sentimento della terra, l’origine contadina, e la comune, lenta conquista della città. Perché la nostra amicizia, nata in città, in Corso Valdocco a Torino, si è rinsaldata tra le colline, tra i libri, nel gran parlare che ne facevamo, nei grandi silenzi, quando ci immergevamo nelle vallate, e gli olmi, le vigne, i prati, i torrenti parlavano per noi due lo stesso linguaggio; amicizia fatta più intensa dai nostri caratteri opposti>. L’uno sempre deciso e battagliero a vivere; l’altro sempre disperato con la voglia di morire. Lajolo inquadra l’infanzia di Pavese, parla del suo carattere schivo, solitario, del suo desiderio di stare lontano dalla gente e di rifugiarsi nei boschi osservando maggiormente le cose derelitte e le persone disperate. Davide Lajolo in un suo libro, «Il vizio assurdo» mette in evidenza la vocazione suicida di Cesare Pavese.
“Ogni suicida ha una ragione particolare, un suo movente personale- scrive Lajolo- ma chi non avrebbe ragione per farlo? Questi pensieri picchiano nella testa di Pavese come tanti martelli. Passata la commozione, superata la disperazione, subentra il ragionamento. Ma è ancora il ‘vizio assurdo’ della morte che continua ad affascinarlo.”
L’ossessione della morte, così l’universo mitico della collina e la solitudine di chiara matrice decadente, sono l’insieme di motivi umani e poetici che la critica ha concesso al suo ultimo romanzo “La luna e i falò”. Allora, vivere diventa “mestiere” da apprendere con grande pena e senza risultati : “Ho imparato a scrivere, non a vivere”, ma anche come la sola possibilità di sentirsi vivi e, per un attimo, persino felici: “Quando scrivo sono normale, equilibrato, sereno”, dice Pavese. Segnato dal senso angoscioso della propria solitudine, dal desiderio di superare tale condizione e la reiterata consapevolezza di non riuscire, ad aggravare lo stato di disagio e a radicare l’idea del suicidio come unica forma di liberazione furono poi per lo scrittore piemontese delle ragioni sentimentali. il rapporto impossibile con l’attrice americana Constance Dowling. A lei dedicò la breve raccolta poetica “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Una delusione amorosa che si aggiunse a quella di “disperata frustrazione” vissuta al suo ritorno dal confino nel 1935, quando trovò la donna amata, una militante del partito comunista clandestino, sposata ad un altro.
“La sua disperazione non era vanità del vivere, ma di non poter raggiungere quell’interezza di vita che desiderava”, ebbe a dire l’amico Italo Calvino. Qualche giorno prima della tragedia, il 21 agosto, Pavese annoterà nel suo “diario”: “Non parole. Un gesto. Non scriverò più”.
Le crisi politiche e religiose ripresero a sconvolgerlo, lo sgomento e l’angoscia lo assalirono, nonostante i successi letterari di “Lavorare stanca” (1936), “Il compagno” (1947), “Paesi tuoi” (1941), “La bella estate” (1949). Alla nuova ondata di solitudine e di senso di vuoto Pavese non riuscì più a reagire.
Interessante anche il percorso politico di Cesare Pavese che si può sintetizzare in poche date: nel ’32-33 acquisì la tessera del Fascio; nel ’35 fu condannato a tre anni di confino a Brancaleone Calabro per attività sovversiva; nel ’36 rientrò a Torino in seguito a una domanda di grazia accolta dal Duce; nel ’45 si iscrisse al Pci. Da lì in avanti il nome di Pavese torinese, einaudiano, comunista divenne il simbolo della miglior intelligenza antifascista. Fino a quando poche pagine di un quadernetto ribaltarono tutto: «Il Taccuino Segreto» che né la Einaudi né altri editori se la sentirono di pubblicare. Che rimase confinato in ritagli di giornale e fotocopie pirata. Come l’iscrizione al Partito fascista per Pavese era stata priva di un vero significato ideale o ideologico, così l’iscrizione dopo la guerra al PCI fu un’adesione senza militanza. Il Taccuino segreto fino a quel momento ignoto, cambiò l’immagine e il giudizio sullo scrittore, mettendoci il lecito dubbio che Pavese non fu fascista fino in fondo. Ma neppure un vero antifascista.
Indimenticabili i suoi versi: «… L’ho incontrata una sera: una macchia più chiara/ sotto le stelle ambigue, nella foschia d’estate./ Era intorno il sentore di queste colline/ più profondo dell’ombra, e d’un tratto suonò/ come uscisse da queste colline, una voce più netta/ e aspra insieme, una voce di tempi perduti».
È nel « Il mestiere di vivere » la confessione esistenziale, ora sottilmente compiaciuta, ora crudamente impietosa, sino al punto in cui lo scrittore sembra tentare una sorta di psicoanalisi letteraria di se stesso. Un diario intimo che registra non solo gli avvenimenti, ma che diventa un vero laboratorio di riflessione sul proprio lavoro di letterato. Nella sua confessione si evidenziano temi ancora attuali, dalla disperata ricerca dell’amore alla tentazione del suicidio come ultima forma di controllo per porre fine ad una vita senza senso. Nelle pagine di Pavese si è al confine con una realtà con al centro la solitudine.
«Passavo la sera seduto davanti allo specchio per tenermi compagnia.»
«Ma la grande, la tremenda verità è questa: soffrire non serve a niente ».
Il giudizio di Pasolini su Pavese è molto impietoso: lo definisce uno scrittore medio, a tratti persino mediocre anche se nota che non è mai venuto meno alla sua morale letteraria. Forse sono proprio critiche di questo genere a sconvolgere il delicato equilibrio di Cesare Pavese. Forse un errore di comunicazione verso il mondo che lo circondava.
Il problema della vita è dunque questo: come rompere il cerchio della propria solitudine e comunicare con gli altri. Queste parole di Cesare Pavese sono amaramente attuali, in quanto la nostra società conosce tante forme di disperata solitudine che, anche nel silenzio, invocano il nostro aiuto.