Desideri di luce. Chiamalo Amore…
“Tu chiamalo Amore anche se ti tradisce… anche se sono carezze che ti spaccano il cuore…” cantava, in quel di Sanremo, Gigliola Cinquetti. Ed era, l’ormai lontano, 1985. Un motivetto senza tante pretese, un testo, sinceramente, abbastanza banale. Che oggi, però, continua a frullarmi nella testa. Scherzi della memoria… e degli anni.
Sono solo canzonette…. tuttavia proprio queste offrono, a leggerne i, più o meno, banali, testi, un repertorio incredibilmente vasto delle declinazioni che attribuiamo alla parola “amore”. Giocando con la semantica, forse il significante cui si legano più significati. Una moltitudine. Ed estremamente contraddittoria. Tutto e il contrario di tutto. E mi riferisco alla parola nel suo utilizzo più specifico, lasciando perdere tutto il resto, l’amore materno e paterno, quello per gli animali, etcetera… Che sono altro e qui non interessano. A me per lo meno.
Dai greci in poi. O meglio dalla lirica eolica, monodica. Ad una sola voce. Dove il poeta dialoga con se stesso. Con la sua anima. Indaga le emozioni. Soffre, gioisce… gode. Prima non era così. Certo, in Omero vi è la furia di Achille perché gli hanno strappato Briseide. Tema fondamentale. Tuttavia è l’offesa all’onore ciò che conta. Non l’amore per la, bellissima, schiava. Se Agamennone avesse preteso il suo cavallo sarebbe stato lo stesso. E forse anche peggio.
Ulisse ama molte Donne, e Dee. Circe, Calypso… Ma non prova sentimenti. Le conquista, come ha conquistato Troia. È una prova di valore. Di aristia, trasferita dal campo di battaglia a quello erotico. Non ci si può specchiare in lui… Certo, torna da Penelope. Ma lei rappresenta la casa. Il regno. Il figlio ed erede.
In Catullo, invece, ci possiamo riconoscere. Per quello è il poeta che tutti, avendo un po’ di sangue nelle vene, abbiamo amato negli anni del liceo. Molto più di Virgilio e Orazio, di grandezza infinitamente superiore. Ma in Catullo, appunto, ci potevamo specchiare. Gli occhi della compagna della prima fila. Le sue lunghe gambe di gazzella scoperte dalla mini scozzese. E lei che non ci filava per niente. Catullo con Lesbia/Clodia ci sembrava uno di noi. Per capire il distacco di Orazio ci vogliono gli anni. E, spesso, neppure quelli bastano.
Ovidio, per me, è subentrato dopo. Aprendo scenari più complessi. Ove il gioco diventa la chiave per andare oltre. Oltre i limiti degli amori usuali. Quelli che fingiamo eterni, e che si rivelano invece effimeri. E dolorosi. Quando non tossici.
Ovidio insegna che ci sono gli amori. Che nascono, si accendono. Divengono abitudine. Finiscono. E ti lasciano il dubbio su cosa realmente siano stati. Che cosa tu abbia trovato di tanto affascinante. E che ora non solo non vedi, ma neppure ricordi più.
Ma Ovidio ci mostra anche che esiste l’Amore. Che è una potenza assoluta. Una forza che domina la legge di metamorfosi del Cosmo. E che va colto nel suo eterno divenire. Senza la pretesa, assurda, di cristallizzarlo, abbassandolo di livello. E, inevitabilmente, causando la morte e la delusione. Ma questo è mistero. Da lì si giunge al Dante della Vita Nova. E al Marino dell’Adone. Sino a D’Annunzio. Tutt’altro che il porco alato di cui, a vanvera, si ciancia anche ex cathedra…
Digressioni erudite… e in fondo vane. Noi, nella vita, si continua a inseguire gli amori, nelle loro parvenze più effimere. Ci si incaponisce in storie senza senso, banali, sovente volgari… e ci si illude, sempre, che siano, che possano essere… altro. Incapaci di vedere oltre la parvenza delle nostre illusioni, perché, in fondo, incapaci di vedere noi stessi. Poi, ci si ammanta di cinismo, illudendoci, anche qui, che sia saggezza. E si pensa che questo ci metta al riparo da ulteriori errori. Da nuove tossine. Dal soffrire… In fondo, come quelli che credono, o vogliono credere che un vaccino li renda immortali. Mentre li priva solo di qualcosa….