Con quel basco da operaio anarchico sempre calcato in testa… Quegli occhialetti tondi da vecchio bolscevico, la parlata ruspante e, diciamo la verità, volutamente burina, il gusto per il turpiloquio colorito sembrava balzato fuori da una Commedia all’italiana anni ’60. Un personaggio macchiettestico.
E invece Antonio Pennacchi è stato, anzi è, perché preferisco parlarne al presente, uno dei più grandi scrittori italiani a cavallo di questo inizio del terzo millennio. Probabilmente il più grande.
Uno scrittore dallo stile personalissimo, forte, pastoso, che fonde diverse registri stilistici. Come dicono i critici, quelli che parlano in punta di forchetta. E che lui era solito sfottere senza pietà. Perché Pennacchi scriveva così come era. Come parlava, come mangiava. Un impasto di cultura e gergalità, sospeso tra i grandi del romanzo classico, Bacchelli, Gadda, Moravia… e la parlata popolare del suo Agro Pontino. La terra dura che aveva contribuito a marchiare in modo indelebile il suo caratteraccio. E a donargli, al contempo, un raro senso dell’ironia.
A quella sua terra, alla sua storia, alla sua gente, ha dedicato il capolavoro. Il fluviale, epico e picaresco “Canale Mussolini “. Una grande saga familiare che diventa specchio, attraverso le generazioni, della storia di un intero paese. Come nei “Buddenbrok” di Mann. Come ne “I viceré” di De Roberto. Solo che qui è la storia di contadini giunti dalla Bassa per bonificare le grandi paludi a sud di Roma. Ed è storia violenta e passionale, narrata con foga quasi autobiografica. E che però si fa colossale affresco di quelle genti. Di quel periodo storico. Di quell’Italia.
Alla sua terra amara, Pennacchi ha dedicato anche straordinari saggi narrativi, pregni di vivacità e umorismo, come “I Neanderthal del Circeo”, e un romanzo sociale, anzi industriale che resta come capolavoro del genere :”Mammut”, che prende spunto dal suo lavoro di operaio in una grande fabbrica della provincia di Latina.
Già, perché Antonio Pennacchi operaio lo era stato per davvero. Per decenni. E aveva fatto un lavoro duro, pesante, con i turni di notte. E intanto rubava ore al sonno per studiare da autodidatta. E scrivere. La sua grande passione. Mica era uno di quegli intellettuali fasulli che si riempivano la bocca con la classe operaia, e mai avevano lavorato in vita loro. Lui sulle mani aveva i calli. E sotto le unghie il segno, indelebile, dell’olio da macchina.
Era stato fascista. A modo suo. Poi comunista. Sempre a modo suo. Ma del Partito Comunista marxista leninista, un gruppetto di nessuna importanza. Che certo non gli poteva garantire appoggi e prebende. Come invece accadeva agli scrittori ed artisti che, negli stessi anni, si arruolavano in massa sotto le insegne delle Botteghe Oscure.
Ma lui era così. Le cose le faceva di slancio, e anche un poco per il gusto di essere bastian contrario. Non per tornaconto.
Delle sue vicende ha parlato ne “Il fascio-comunista” che resta uno straordinario ritratto della convulsa vita politica giovanile tra i ’60 e i’ 70. A renderlo famoso proprio il film tratto da questo :”Mio fratello è figlio unico”, con Scamarcio. Un brutto film, che ben poco ha a che fare con il suo romanzo
“Una boiata – aveva commentato – però m’hanno dato un mucchio de’ quatrini…” e rideva tutto soddisfatto.
Memorabili le sue, rare, performance televisive. Come quando invitò pubblicamente un famoso filosofo di sinistra ad andarselo a pijà ner… Per poi affermare che lo aveva detto con stima e affetto.
” E poi a lui je piace… ” aveva aggiunto.
O quando, criticato perché pubblicava per Mondatori, che era di Berlusconi, aveva detto “… A me solo lui mi pubblica. Gli editori de’ sinistra no.. E poi – aveva aggiunto – il mio è lavoro. Che mi frega se il Berlusconi va a troje? Gli operai della Fiat mica si licenziano perché Lapo va coi trans…”
Straordinario, per altro, il suo “Viaggio nelle città del Duce” l’epos delle bonifiche e, secondo i critici che poco lo amavano, una vera e propria apologia del Fascismo. Che, però, era nata dai reportage che scriveva per “Limes” di Caracciolo. E straordinaria anche la sua collaborazione all'”Indipendente” nell’effimera, folle e geniale stagione in cui fu diretto da Giordano Bruno Guerri. Col quale, ricordo, intavolò una veemente polemica sull’uso delle eufoniche. Perché lui, Pennacchi, scriveva “ed”. E Giordano Bruno, che non le ama, gli toglieva la d. E Antonio si incaxxx di brutto….
Se ne è andato. Probabilmente il cuore, già più volte provato da infarti. Quasi sicuramente con il solito basco in testa.
Buon viaggio Cameragno.