Mi capita sotto gli occhi uno strano elenco. Un elenco di piatti, che qualcuno ha ritrovato in un archivio. E pubblicato. È roba vecchia infatti. Carta ingiallita, vergata a mano. Una scrittura elegante. Di quelle di un tempo, quando la calligrafia era disciplina importante nella formazione di un giovane. Niente di che quanto a contenuto. Un elenco, come dicevo, di pietanze, che può darci uno spaccato di cosa veniva servito alla tavola di una famiglia aristocratica del primo ‘800. Utile, non essenziale, ché sui gusti dell’ epoca abbiamo ben altre fonti….
Solo che a vergare tale lista è stato… Giacomo Leopardi. Già, proprio lui, il poeta dell’Infinito, di Silvia, delle Ricordanze…. Che annotava, sin da giovanissimo, tutto ciò che lo interessava. In modo addirittura maniacale. E in questo appunto, l’illustrissimo signor Contino – come era solito scrivergli il Pietro Giordani, finissimo critico e tra i pochi a comprenderne il genio – ci dice cosa mangiava. E, soprattutto, cosa gli piaceva mangiare.
Perché Leopardi mangiava. E di gusto. Tanto che si narra che morì non di colera come dicono i libri di scuola, bensì di indigestione di gelato mantecato alla crema. Cosa che, però, non si deve dire. Perché sembra di diminuire l’immagine del poeta. Anche se, sinceramente, questo proprio non lo comprendo. Perché dovrebbe essere più dignitoso morire di colera, fra atroci tormenti intestinali, piuttosto che per essersi divorato una cofana di squisito gelato? Muori in entrambi i casi. Ma nel secondo, forse, muori più contento.
Comunque, a Leopardi – quello che, per vieta convenzione viene chiamato il poeta del pessimismo, e che, per me, è all’opposto il poeta della vita – piaceva il cibo. Lo gustava. E questo fuoriesce dagli stereotipi che vogliono i poeti astratti dai piaceri terreni, soprattutto dal gusto, tutti sospesi fra le loro nuvole. Una sorta di imbalsamazione delle loro immagini.
Invece, i poeti erano, innanzitutto, uomini. Uomini veri, con passioni, gusti, idiosyncrasie, manie, paure… Erano fatti di carne e sangue, non solo di pensieri e parole. Amavano e odiavano con una intensità viscerale. E l’esempio lampante è, al solito, Dante.
I poeti e la buona tavola. Una relazione, direi un legame, molto, ma davvero molto più stretto e intenso di quanto si possa credere.
Carducci, certo, era una buona forchetta. Ed anche un gran bevitore. Non ne ha mai fatto mistero. E nella sua poesia spesso vi fa cenno. Esplicito.
E D’Annunzio anche in questo non si smentiva. Raffinato, serviva alle sue amanti le fragole all’etere. E sorseggiava l’Aurum, un distillato abruzzese di agrumi, cui proprio lui aveva dato nome. Certo, era parco, o, per lo meno, non dedito alla crapula come molti grandi del Rinascimento: Pulci che descrive il folle banchetto di Morgante e Margutte, Rabelais, dai cui anti – eroi vengono aggettivi come gargantuesco e pantapruelico, a significare smodate abbuffate. E non dimentichiamoci l’Aretino, e lo stesso Giovan Battista Marino. Che al senso del gusto ha dedicato versi memorabili…
Se si legge, poi, il Diario del Viaggio in Italia di Goethe, ci si imbatte di continuo nella descrizione di piatti. Memorabile, per me, l’immagine delle “granseole” veneziane, preparate in saporite insalate condite con olio, sale pepe e limone, dentro il loro carapace rosso fiammante e che il grande poeta tedesco paragona alla forma, e ai riverberi, delle Cupole di San Marco.
Ma non voglio fare un excursus sui cibi in letteratura. Sto parlando di altro. Dei poeti. E della loro capacità di gustare i piaceri della vita.. Tutti. I sapori come i profumi. Non solo le immagini e i suoni. Perché i poeti possono soffrire. Avere una sensibilità esasperata. Sofferenze d’amore. Come Leopardi contemplare, angosciati, il non senso dell’esistenza umana. Possono essere malinconici, infelici, furenti. Ribelli. E però sanno apprezzare certi aspetti della vita. Anche i più semplici. E le sanno apprezzare più degli altri uomini. Il poeta non muore d’inedia. Non dimagra perché disinteressato al cibo, o preso dalle sue fantasie. Il poeta, miei cari, mangia. E mangia con piacere. Traendo dal cibo sensazioni, emozioni… Che non sono estranee alla sua arte.
E così il Leopardi poteva contemplare le umili ginestre lungo la china del Vesuvio sterminatore, e le rovine di Pompei. Meditare sul senso di quella che chiamiamo, troppo pomposamente, Storia. Sulla tracotanza stolta delle magnifiche sorti e progressive. Sentirsi sull’orlo del precipizio. Della disperazione. E, al contempo, gustare un gelato mantecato alla crema. Non abbiate paura…non toglie niente alla sua grandezza. Alla sua poesia. Anzi….