Un’intesa insidiosa per l’Europa. Ue e Cina siglano l’accordo di principio sugli investimenti: salutato trionfalmente dalla Commissione europea, è invece Pechino a vincere la partita. In un colpo solo Xi Jinping incoraggia investimenti europei per sostenere la propria economia, rafforza il regime ed apre una faglia fra Ue e Stati Uniti.
Sarà stata la fretta di chiudere la trattativa entro il 2020, ma l’intesa non esprime una strategia condivisa dai 27. La tempistica dell’accordo siglato il 30 dicembre lascia interrogativi. Nonostante sette anni di negoziati, Bruxelles ha corso parecchio nell’ultimo miglio per concludere i giochi. Con gli Usa in piena transizione Trump-Biden, e quest’ultimo che aveva chiesto a Bruxelles di frenare su un accordo separato con Pechino. Qui ha giocato un ruolo chiave la premier tedesca Angela Merkel, nei suoi ultimi giorni da presidente di turno del Consiglio Ue. Tedesche anche Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, e Sabine Weyand, capo della direzione commercio a Bruxelles e braccio operativo nei negoziati.

Lo sprint finale della Cancelliera trova un saldo motivo negli investimenti Ue in Cina, perlopiù nel settore automotive con Berlino capofila. Scarso il coinvolgimento di altri Paesi membri. Polonia, Spagna e Italia hanno espresso pubblicamente perplessità. Tuttavia, solo dopo l’ok di Bruxelles.
I mal di pancia interni riguardano le questioni diritti umani ad Hong Kong e lo sfruttamento dei lavoratori. “L’accordo promuove i nostri valori fondamentali – tranquillizza von der Leyen – e faremo leva per sradicare il lavoro forzato in Cina”. Buoni propositi, piuttosto che reale strumento negoziale. Ma se quanto a rispetto di valori condivisi non arrivano grosse certezze, meglio non si può dire sul piano commerciale. Certo, per le imprese comunitarie sarà più facile investire in Cina, con lo stop all’obbligo di creare joint venture insieme ad aziende locali. Ma questo è più un aiuto all’economia del Dragone.
Fanno il resto le limitate concessioni di Pechino in tema di accesso ai mercati, che non risolvono lo squilibrio a favore della Cina. E minano la difesa commerciale europea, campo su cui Bruxelles ha tenuto un approccio morbido. Basta guardare alle norme sugli aiuti di Stato: a quanto trapela, la soglia permessa per sussidi pubblici alle compagnie cinesi – ossia, fino a quando la concorrenza è leale – risulta addirittura più alta di quella concessa al Regno Unito.

In più, i dubbi sulla competizione equa fra Bruxelles e Pechino non potranno, accordo alla mano, essere oggetto del cosidetto meccanismo di risoluzione delle dispute. Insomma, l’Europa non potrà mettere sul tavolo misure di compensazione – può, invece, contro Londra – nel caso ritenga che la Cina abbia favorito la concorrenza sleale tramite ingenti aiuti di Stato. Scontate le ripercussioni negative – se l’impostazione non cambia – sulle industrie nazionali nel Vecchio continente.
Il patto siglato è comunque temporaneo. La parola passa a Parlamento e Consiglio europeo. L’intesa non avrà gioco facile viste le trasversali rimostranze dei Gruppi a Strasburgo. Ma il segnale politico è lanciato. Anche se naufragasse l’accordo, Pechino avrà rafforzato la Germania quale interlocutore Ue privilegiato, acquisito peso negoziale e allontanato la palla sul fronte dei diritti umani.