Cina o Usa? Il disastro statunitense in Afghanistan ha riaperto le discussioni su qual è e soprattutto quale sarà la prima potenza mondiale. Pechino cresce più di Washington, ma la stretta di Xi Jinping sui capitalisti cinesi – “invitati” a prestare più attenzione alle comunità locali – potrebbe frenare la fortissima spinta economica. Vero, ma non è detto che un rallentamento economico rappresenti un male assoluto. Perché rallentamento della crescita non significa decrescita, più o meno felice. Significa guardarsi intorno, coinvolgere l’intera società e, da questa, trovare nuove forze per ripartire.
Un discorso difficile da comprendere per quegli statunitensi che pensano esclusivamente al profitto immediato e se ne fregano dei costi sociali. Gli Usa si illudono di frenare la crescita cinese bloccando le forniture di tecnologie avanzate. Si illudono di avere università migliori che sfornano laureati migliori, e di mantenere questo primato all’infinito. Mentre i cinesi, secondo gli analisti Usa, saranno sempre costretti a condividere le terre rare che possiedono e che sono indispensabili per l’industria contemporanea.
Ovviamente gli analisti americani sottovalutano gli effetti disastrosi che la cancel culture avrà sul loro sistema scolastico, con conseguenze pericolosissime sull’intera società civile statunitense. I primati universitari sono legati, esclusivamente, alla cultura che il politicamente corretto cerca di eliminare.
Mentre, sul fronte opposto, lo stesso Xi sta cercando di recuperare – seppur in modo quasi sotterraneo – la cultura plurimillenaria cinese. Un vantaggio non da poco, se si vuol essere i primi nel mondo. Pechino resta però spaventosamente indietro nel soft power. Non ha una narrazione esterna coinvolgente, benché le potenzialità siano superiori a chi può solo contare sul mito della “frontiera” e dei vaccari trasformati in eroi. Manca, in Cina, l’equivalente di Hollywood, mancano i telefilm con cui invadere il resto del mondo. Manca un modello da imporre fuori dai confini.
Però il politicamente corretto potrebbe aiutare Pechino e penalizzare Hollywood. Le boiate tipo eroi omerici interpretati da attori afroamericani, le donne del mito trasformate in maschi, l’imposizione di personaggi Lgtbq etc etc in riproposizioni di storie letterarie dove non erano presenti rischiano di avere un effetto controproducente. Non è detto che la Cina sappia approfittarne.
Così come non è scontato che Pechino riesca a sostituire Washington nelle alleanze internazionali. A prescindere dai maggiordomi atlantisti in giro per l’Europa. Xi ha difficoltà ad individuare amici veri, anche perché non dimostra grande empatia negli approcci esterni. La Russia è vicina, ma solo per contrasto alla idiozia americana. E se l’Unione europea non fosse guidata dai maggiordomi di Biden, Putin sarebbe ben felice di rivolgersi ad Ursula von der Leyen invece che a Xi. L’India è un rivale storico; la Turchia guarda con favore a Pechino solo perché è giustamente impegnata su più tavoli in un grande gioco in cui vuol essere protagonista; l’Iran è in una posizione simile a quella russa; i Paesi arabi sono ancora troppo legati agli Usa; l’America Latina avrebbe bisogno di soft power cinese alternativo a quello nordamericano oltre che di finanziamenti.
Resta l’Africa, destinata ad avere un ruolo crescente. Ma proprio nel Continente Nero non sarà facile gestire i rapporti tra i nuovi protagonisti: Cina, Turchia, Paesi Arabi, Russia, anche India. Mentre la Francia cerca disperatamente di conservare un proprio ruolo.