Pirandello – sempre lui, certo, ché da una vita il suo pensiero mi insegue e inquieta – dice che “essere civili è essere commedianti”. Niente di nuovo. La si può prendere come un’ennesima declinazione del tema della vita come grande pupazzata. La dicotomia, anzi, il contrasto fra vita e forma…i personaggi in cerca d’autore, il berretto a sonagli del matto, che è poi, quello che si comporta da “incivile”. Ovvero che dice la verità… sempre che una verità, in senso assoluto, possa esistere e non sia un “Così è, se vi pare”. Solo rappresentazione, di una volontà inconscia o subconscia. Il ristretto alone di luce di quel lanternino che ci portiamo infisso sulla testa…
Insomma, il solito armamentario dialettico pirandelliano. Quello che ogni professore utilizza e richiama quando fa lezione sul grande drammaturgo di Girgenti….per lo meno quei professori che ancora fanno lezione, o, per lo meno, ci provano. Merce sempre più rara, in una scuola che è, ormai, diventata solo formalità, burocrazia, distanze. E mascherine. Che, anche se ormai ogni obbligo è venuto a cadere, in troppi ancora continuano a portare. Nella loro mente. Che è, poi, quello che davvero conta…
Però non è così facile. Né così scontato. La battuta di Pirandello rimanda ad un altrove ben più complesso. A un dibattito, se vogliamo, che attraversava come una sorta di febbre la cultura europea del primo Novecento. Un magma in ebollizione, che aveva il suo punto di eruzione nella, tormentata, Germania. Dove, non a caso, il siciliano Pirandello si era formato.
Potrei semplificare dicendo che era il dibattito su Kultur e Zivilisation.
Il grande dibattito che vide, in diversi modi, coinvolti pensatori come Spengler e Berdjaev, come Ortega e Heidegger. E grandi scrittori e poeti come Benn, Bieliy, Valéry…e soprattutto un genio inclassificabile come Ernst Jünger…
Non era, però, un semplice dibattito sul senso della storia. Coinvolgeva profondamente la vita. O meglio, il senso della vita. E Pirandello coglie proprio questo. Esprimendosi, al solito, in un linguaggio volutamente semplificato. Una maschera per la profondità drammatica del suo pensiero.
Perché se Io trovo qualcuno insopportabile e lo mando al diavolo, questa è “cultura”. Se, all’opposto, mi comporto con lui in modo educato, e simulo una simpatia, un’amicizia, financo un amore che assolutamente non provo…beh, questa è “civiltà”.
Perché la Civiltà è, alla fin fine, finzione. Ipocrisia, nel senso letterale del termine. Ipocritès, in greco, significa attore. E Pirandello era un vecchio filologo. Proprio come Nietzsche.
Intendiamoci. Nessun moralismo d’accatto. La finzione è necessaria alla convivenza civile. Senza dì questa vivremmo in una “cultura” primordiale feroce. Selvaggia. Come intuisce Thomas Mann nelle sue “Considerazioni di un impolitico”. E anche Freud, dopotutto, era convinto della necessità “sociale” della repressione delle pulsioni di ciò che aveva denominato “inconscio”. Prendendo a prestito il termine da Eduard von Hartmann…
Però una società è sana se cultura e civiltà restano in equilibrio. Ovvero se permane la coscienza che la finzione, la recita è tale. Una pupazzata, appunto. Così un uomo può, necessariamente, recitare la sua parte nella commedia della vita. Ma sapendo che tale è. Come Ottaviano, che sul letto di morte disse agli astanti: Ho dunque recitato bene la mia parte?
Ma se tu ti identifichi totalmente con la menzogna, se non riesci più a distinguere ciò che sei dalla parte che reciti in commedia, allora le cose cambiano. Perché non sai più distinguere ciò che conta davvero, quali siano i sentimenti autentici. Perdi ogni legame con la natura.
Diventi solo un … involucro. Un guscio vuoto, animato da pulsioni che non sai, e soprattutto non vuoi riconoscere per quello che sono. E che mascheri. A te stesso prima ancora che agli altri.
Quando una Civiltà arriva a questo è arrivata alla frutta. È alla fine. Il suo destino è solo di decadere, degradarsi. Infine sparire.
E lo stesso vale per il singolo uomo. O donna, per evitare l’accusa di sessismo maschilista.
Il suo destino è quello della solitudine. E del degrado interiore. Senza più speranza di luce.