Il Carnevale – perché inevitabilmente di questo torno a parlare – si lega, nella mia memoria, indissolubilmente al teatro. Forse è per i grandi Carnevali del Teatro di Venezia. Gli anni ’80, quelli del riflusso, del ritorno al privato. Dopo la sbornia ideologica del decennio precedente. E la sua ferocia. Che ancora mieteva vittime, certo. E tuttavia era tornata una certa voglia, una certa febbre di vita. I soliti intellettuali la hanno etichettata “edonismo reaganiano”. Con la supponenza di chi mai è in grado di guardare oltre il proprio ombelico…
Comunque, il Carnevale stava ritornando, dopo una lunga eclisse. In cui era sopravvissuto in semiclandestinità… festini per bambini. Studenti ubriachi che lanciavano manciate di farina alle ragazze. Roba così…
Poi, però, si è andato riscoprendo. Dapprima a livello popolare. Il ritrovato gusto di mascherarsi. Di fingere una vita diversa. Poi, anche per ragioni economiche, a Venezia hanno lanciato il Carnevale del Teatro. Soprattutto per il genio, registico e organizzativo, di Maurizio Scaparro.
Tre, forse quattro anni soltanto. Prima che tutto degenerasse in becera macchina per attrarre turisti. Ma me ne resta un ricordo straordinario. Il Teatro del Mondo, che stava su una chiatta di fronte a San Marco… I Mimi nelle piazze. Straordinaria una, fiabesca, Tauromachia messa in scena in un Campo da Les Comediants. Che, se non ricordo male, dovevano essere catalani. E non francesi.
E poi Goldoni, in tutte le salse. Addirittura una messa in scena della ben poco nota “La guerra”, recitata in inglese.
E al Teatro Goldoni, “I gioielli indiscreti” di Diderot.
Una riduzione teatrale di quella che viene considerata l’appendice proibita alla “Passeggiata di uno scettico”. Proibita perché libertina. E, soprattutto, esplicitamente pornografica. I bijoux, i gioielli, sono infatti i genitali. Essenzialmente femminili. Che parlano, svelando l’ ipocrisia delle convenzioni sociali. E, alla fine, affermando quello che è un punto fermo del pensiero di Diderot. È assurdo tentare di separare l’anima dal corpo. Sono in, indissolubile, sinergia. Negarlo è finzione.
Non si tratta, certo, di un capolavoro. Tuttavia mi è restato impresso. Perché rappresenta perfettamente cosa sia il Carnevale, cosa sia soprattutto il Teatro. Come, diciamo, metafore della vita.
Perché la vita è una grande carnevalata. Cui partecipiamo sempre in maschera. Da sempre. Per questo non c’era bisogno di Speranza, Draghi, Brunetta. E altri (tristi) nani e ballerine.
Pirandello, che aveva capito tutto o quasi, parla di “pupazzata”. Sempre teatro, comunque. Recitazione a soggetto. Senza copioni. Come nella Commedia dell’arte.
E, in fondo, noi non siamo che maschere. Crediamo di essere unici, eccezionali. Diamo un peso sproporzionato alla nostra personalità. Che, però, a ben vedere, rientra sempre in una serie di stereotipi. Di personaggi fissi. Con alcune varianti, certo. Ma si tratta solo di sfumature. Sopravvalutate.
E si tratta, per lo più, di maschere da Commedia. E da farsa. La tragedia resta a margine. I protagonisti devono, canonicamente, essere eroi ed eroine. E di questi, oggi… meglio lasciare perdere.
Maschere, dicevo. Lo stolto e il furbastro. Arlecchino e Brighella. Il Vecchio libidinoso, il Pappus dell’Atellana. L’avaro. Il malato immaginario, oggi figura comica pandemica. Il giovane sciocco innamorato. La seduttrice e il parassita. Il marito cornuto e la moglie ingenua (titolo di una effervescente pièce di Achille Campanile)…. E potrei continuare. Non a lungo, però. Le maschere, i tipi umani sono limitati. Scene, situazioni, personaggi si ripetono sempre. A teatro come nella vita.
Con una differenza. A teatro le commedie umane divertono. Ci fanno ridere, o per lo meno sorridere. Ed hanno funzione catartica. Perché, senza che ne siamo coscienti, ci mostrano i vizi ed i limiti che sono nostri. Ma ce li mostrano come altro da noi. E così, nel distacco tra palco e platea, possiamo prenderli con ironia.
Nella vita non siamo coscienti di recitare una parte. Ci prendiamo troppo sul serio. E quando, per caso, vediamo la commedia che recitano gli altri intorno a noi, anche persone cui teniamo, non riusciamo a non avere l’amaro in bocca.
In fondo le grandi maschere comiche hanno sempre un’espressione triste. L’ipocrites, in greco l’attore in maschera, non è mai felice….