Ivan Fedeli, Cose di provincia, puntoacapo, Pasturana 2022.
Una cordiale epopea della provincia
Se d’Annunzio, inneggiando alla Vita, nella Laus Vitae si era ripromesso di dirne, da esteta qual era, «tutta la […] bellezza», calcando naturalmente il pedale del sublime, dopo Gozzano e l’esperienza dei crepuscolari un’operazione del genere si è rivelata francamente impossibile. Il sublime ha lasciato il posto all’ordinario, l’eccezionale al normale, all’usuale e finanche al banale. La poesia ha dismesso i panni augusti, aulici e curiali, della tradizione per mimetizzarsi nella quotidianità, rinunciando ad ogni aureola, ad ogni segno distintivo del proprio status, in nome della semplicità. Un bagno di umiltà, dopo la prosopopea ostentata da vati più o meno credibili, in effetti si imponeva, s’imponeva una pausa di riflessione, sennonché da un estremo si è quindi passati all’altro.
Al canto spiegato e talora perfino sopra le righe è subentrato un canto strozzato o in sordina, prossimo all’afasia. La poesia si è arresa alla prosa nella quale ha finito per alienarsi. Fino a non avere più nulla da dire. Fino a vergognarsi di se stessa. A confondersi masochisticamente con la senilità, la malattia, la demenza. È questo il destino di Totò Merumeni e degli altri eautontimorumenoi suoi pari. Solo pochi (peraltro buoni) poeti hanno saputo destreggiarsi fra gli estremi continuando ad alimentare sotto traccia o senza darlo troppo a vedere il sacro fuoco; altri invece si sono trincerati in torri d’avorio inaccessibili, dove, sdegnosi di ogni profanum volgus, avvilupparsi in un gergo esoterico, per gnostici iniziati; altri ancora, indulgendo all’iconoclastia propria degli avanguardismi di ogni epoca, sui frantumi dei vecchi templi hanno giocosamente tentato di erigere babeliche utopie, destinate a esaurirsi in astratti furori e frigidi esercizi di enigmistica.
Così, alla retorica magniloquente e talora un po’ vacua e tronfia della tradizione ne hanno sostituita una di nuovo conio, acida e corrosiva, nutrita di nichilismo. Sembrava in tal modo avverarsi la parola dell’oracolo che aveva preannunciato la morte della poesia o, se non altro, il suo divorzio dal mondo e dalla vita. Per mancanza ora di fiducia ora di cordialità.
Forse era necessario giungere al grado zero di una morte apparente per ridestarsi e tornare a poetare. A dire, a costruire. Dialogando con la vita, col mondo, senza albagia, senza presunzioni. E per fare questo era necessario partire dal basso, senza impancarsi a maestri, senza bardarsi di infule o di corone d’alloro. Il poeta doveva tornare ad essere uomo tra gli uomini, condividerne il linguaggio, le idee, le passioni, nel tentativo di salvaguardarne, per quanto possibile, il ricordo, riscattandoli dall’entropia, dall’usura del tempo, dall’incombere del silenzio. Anche a costo di trasfigurarli, di trasformare la ridente o dolente realtà dell’esistenza per sublimarla in fiaba, favola o leggenda. Solo così, del resto, era possibile farne un messaggio o, meglio, un retaggio da trasmettere alle future generazioni e renderle in qualche modo edotte della loro provenienza: delle radici e insieme del peculio morale su cui avrebbero potuto contare per andare oltre, continuando la staffetta senza tema di avere smarrito il testimone.
È questa la sfida in cui si è cimentato con successo Ivan Fedeli. Il suo mondo è quello della provincia lombarda, dove egli si è formato alla luce de La buona educazione che costituisce il nerbo della sua precedente raccolta; solo che qui il discorso acquista una dimensione corale e si allarga fino a diventare una sorta di epopea popolare, di cui è protagonista un’intera comunità. Qui il poeta è più che altro un testimone o, meglio ancora, un collettore di voci, dicerie, racconti che gli servono per imbastire oltre centoventi ritratti di personaggi semplici e tuttavia ricchi di umanità, unici e infungibili. Con una loro precisa identità, magistralmente colta e individuata con estrema parsimonia di tocchi dall’autore, che li fissa in un tratto fisiognomico o, più plasticamente, in un tic, in un gesto abituale. E magari li associa ad un oggetto emblematico (una bici, un’auto, una Vespa, un giornale, un particolare dell’abbigliamento, ecc.), ad una consuetudine, ad un mestiere, oppure a qualche episodio curioso (un gol di rapina, le pagelle mangiate dal cane, la partecipazione alla lotta partigiana…). Talvolta ne ricorda le fedi, politiche o sportive, i gusti culturali, gli slanci sentimentali, i sogni nel cassetto, le illusioni… Sempre con simpatia o con un filo di affettuosa ironia.
Ne viene fuori una galleria di microstorie individuali appena abbozzate, di figure e figurine per lo più menzionate – ma sarebbe il caso di dire evocate – con i loro nomi o soprannomi, non di rado dialettali e comunque dialettalmente rilevati dall’articolo determinativo che li precede e ne rimarca, appunto, l’individualità con cui s’imprimono negli annali del luogo o nella storia del borgo. Sullo sfondo di case, palazzi, piazze e piazzuole, viali alberati, reticoli di vicoli e di strade che si aprono su distese di prati simbolicamente assunte a designare l’orizzonte, lo spazio vuoto – e ignoto – che sconfina nell’altrove: un’immagine dell’infinito nella sua duplice accezione di libertà e di Nulla. È questo il luogo della dissolvenza o, se vogliamo, della vacanza, dell’evasione: l’ideale per smemorarsi panicamente, distendersi a contare le stelle e le nuvole che passano. Assaporare la gioia e il brivido dell’indifferenziato. Alto sulla provincia ride (o sorride) un cielo manzoniano, «così bello quando è bello», nel suo alternarsi di luci ed ombre, nel suo accendersi e spegnersi stagionale: specchio ideale di un eterno ritorno dell’identico e schermo sul quale il tempo proietta ombre cinesi di nuvole e di sogni.
Eh già, perché il tempo, qui, è il vero convitato di pietra, in duplice versione, a seconda se ad adombrarlo siano le nuvole in transito – come nei Malavoglia – o il vento, che, foscolianamente, «con le sue fredde ali», spazza via ogni cosa, non solo «cartacce e resti / di una sera d’estate». Nel primo caso il tema è declinato in chiave esistenzialistica: il tempo ha cioè la parvenza di un continuo écoulement, di una emorragia non meno inavvertita che inarrestabile: è il tempo «che va senza / avvisare», al ralenti, come quando, in un’afosa stagione di provincia, «si rincorrono / cani e mosche nelle piazze ferme e / tutto scorre tutto lentamente va». È il silente svenarsi della vita, la legge eraclitea a cui, nella loro innata saggezza, i personaggi di Fedeli, «gente / fatta di radici e di cuore», sembrano sostanzialmente aderire «con il coraggio di sempre», quelli almeno che non si limitano ad esistere, ma la vita vogliono viverla davvero, dirle di sì e interpretarla a proprio modo, strizzandole l’occhio come si fa con gli amici, quasi a sollecitarne la complicità, senza bisogno di parole. È il caso del «signore degli orologi», che qualcuno immagina «nell’atto / di vivere la vita e riderne e / amarla almeno come tutti da queste / parti dove il silenzio dei prati apre / alla solitudine esatta del sole». Strizzare o schiacciare un occhio in segno d’intesa è un gesto ricorrente in queste poesie e rientra, come vedremo, nell’ottica dialettale che contraddistingue la provincia. Fa parte della sua Weltanschauung, al pari dell’imprecare di alcuni che, nella versione di Fedeli (“ostiare”), perde molto della sua carica blasfema.
Ma torniamo alle nuvole, un simbolo complesso e polivalente, se pensiamo alle «meravigliose nuvole» delle quali si bea l’étranger baudelairiano o alle montaliane «Nuvole in viaggio, chiari / reami di lassù! D’alti Eldoradi / malchiuse porte!» Nel loro silenzioso transitare, esse sembrano misteriosamente ribadire la legge della vita e suggerire la naturalezza dell’avvicendarsi generazionale. Ebbene, in una di queste poesie, “Il figlio dell’Italo”, il tenero gesto di un padre che abbraccia il figlio è giudicato la spia di «un destino dolce» dal coro anonimo dei circostanti. Ed a chiosa di tale giudizio il poeta aggiunge: «Sembra / accada spesso agli uomini di qui / dove si resta all’ombra volentieri / cedendo posto a chi viene con calma / e in silenzio scappa in giro un sorriso». Forse è proprio nella catena generazionale il segreto della vita, perché è alle mani dei nostri figli che, con la memoria di noi, è affidata la verità delle nostre azioni, la possibilità di un senso non effimero: «Forse è dei figli la storia dei padri / e vale da generazioni il senso / di una gloria che appartiene a distanza / nemmeno un segreto unisse noi e chi / c’è già stato o verrà».
In tal modo l’esistenzialismo di Fedeli apre al futuro, ovvero alla speranza, il carcere dell’esserci, e lo fa ribaltando il concetto sartriano che vede negli altri l’inferno dell’io. E in questo ha perfettamente ragione Marco Beck, nella sua impeccabile introduzione alla silloge (La “cardiosofia” di Ivan Fedeli), a parlare dei valori umani e naturaliter cristiani che la sostentano. Ciò non toglie che sia forte e acutamente sentita la quiddità temporale dell’esistenza che, nella sua versione tragica, è davvero inquietante, perché anche sulla magia dei nomi e sulla persistenza della memoria trionfano alla fine il silenzo e l’oblio. Il vento che spazza le strade fa piazza pulita anche dei ricordi e allora il poeta, allarmato, chiede «in giro domani che sarà di noi». Quasi avesse il presentimento che anche sul suo mondo incombe una minaccia di annientamento, le cui cause, in una sorta di inconscia esorcizzazione, vengono accuratamente rimosse: potrebbero però essere la globalizzazione, l’omologazione prodotta dalla tecnica e dalla mercificazione, il pensiero unico, la cancellazione delle differenze, la fine dell’umanesimo e forse dell’uomo stesso, in nome del trans-umano e del post-umano. Il trionfo del nichilismo, insomma. Riteniamo che la poesia di Fedeli nasca dalla presaga percezione di questo naufragio imminente. Per questo egli difende a oltranza le ragioni dell’uomo e del cuore, che sono le stesse che innervano la vita della sua provincia, ancora a misura d’uomo e mille miglia lontana da ogni sospetto di hybris.
La provincia di Fedeli – quella che Natale Oggionni nella sua postfazione ci accerta essere Ornago, dove in effetti il poeta monzese è cresciuto – è sì «una provincia senza età» e quindi a suo modo esemplare, nondimeno è riconducibile, sulla base di vari elementi che Beck definisce “strutturali” e, in particolare, di riferimenti a poeti, letterati e cantautori databili con buona approssimazione, al periodo che va dagli anni ’70 agli anni ’80 del secolo scorso, quelli cioè dell’infanzia e dell’adolescenza dell’autore. Questo spiega, in parte, l’idealizzazione nostalgica della provincia, il pathos della distanza che accompagna l’amarcord del poeta, il quale attinge alla memoria propria, ma integrandola spesso e volentieri con le testimonianze, già leggendarie, della collettività. Di qui la frequenza dei vari “dicono”, “raccontano”, “giurano”… Il poeta, in altre parole, da buon rapsodo porta a compimento un’opera di sublimazione già avviata a livello di bar o di altri centri di aggregazione, dove non è difficile “sentirsi eroi / di una terra di mezzo”.
È lì che nascono i «miti di strada», di lì vengono gli spunti narrativi che alimentano la fantasia popolare, perturbata e commossa a volte da piccole cose, da minimi eventi o anche solo dall’improvviso sparire di una persona nota. Basta che uno vada via o si perda un po’ di vista, perché sùbito lasci un vuoto che sconcerta e, per rimediarvi, s’immagini che viva altrove, pronto, quando che sia, a ritornare.
Come le rondini, come le stagioni. La sua scomparsa innesca poeticamente le fantasie degli amici e dei conoscenti, alimenta «i sogni / della notte così accade alle fate / e agli elfi dei bambini». Non diversamente avviene al poeta: qualora l’assenza di un personaggio si prolunghi , egli si chiede perplesso: «Chissà […] dove sarà adesso», e congettura alternative più o meno plausibili («forse… o forse…»); qualora invece quella si prospetti definitiva, sopperisce con ipotetiche del tipo: «Sarebbe stato…»
Fedeli è ben consapevole della distanza che separa la realtà con le sue infinite contraddizioni dai sogni o dalle favole, tanto da ammettere: «Di queste cose e di altre care è fatta / l’esistenza raccontano e non sai / se è vero ciò che accade o forse / è l’apparenza a rimanere in noi / o il senso di un pensiero, la distanza». Ma sa altrettanto bene che «la poesia fa ogni cosa possibile» e può anche, alla luce dell’amore e della nostalgia, trasvalutare eufemisticamente la realtà, trasfigurarla in un modello ideale, «che è bello credere sarà per sempre». È dalla provincia che egli parla, nelle vesti di un “tu” autoriflessivo, e i frequenti deittici (“qui”, “di qui”, “questo”, “questa”, ecc.) ci dicono che, come nei suoi personaggi, anche in lui pulsa «un po’ / l’essenza del luogo», del luogo anch’egli fa e si sente parte, fiero, alla stregua di Saba, di «vivere la vita di tutti, / d’essere come tutti / gli uomini di tutti / i giorni». E lì, nel vivo della comunità, dove «si esiste col cuore» frammezzo alla «allegria buona delle cose», nel flusso «della vita che passa lasciando / qualche storia da proteggere qua / e là come fosse unica», egli avverte l’urgenza, se non anche l’esigenza, di raccogliere «le storie mai scritte del luogo» e di fare leggenda dei nomi, anzi di quella «gloria di nomi» che costituisce la ricchezza della provincia. E sono nomi, questi, «di un’epica / bassa dove tutti trovano un ruolo». In tal modo quello del poeta è un atto d’amore che s’innesta sull’attitudine memoriale della sua gente e ne esalta l’innata pietas: «Viene / allora una luce obliqua in giro / e si aggiunge lentamente alle cose / a protezione loro e di chi sa / delle favole del luogo finché / qualche nuvola si staglia nel cielo / di quelle che ricordano Magritte».
Nelle poesie di Fedeli, pur intenzionalmente inclini ad un minimalismo in perfetta linea con l’humilitas dialettale della provincia, non è raro imbattersi in esiti surrealistici del genere, che ci rimandano agli estri zavattiniani o ci ricordano certe invenzioni felliniane. È il suo modo di rendere onore ai nomi, di celebrare la vita riscattandola dalla sua caducità e ritardandone per quanto possibile la fine, il suo lento scivolare nel silenzio, in una dissolvenza che evoca «la gloria inconcludente dei prati». La vita in effetti – come intuisce il pirandelliano Vitangelo Moscarda – «non conclude». È una poesia, quella di Fedeli, che si nutre della prosa dei giorni (dei giorni «alterni / di provincia dove il silenzio stesso / ha un nome e ci si guarda la domenica / vestiti a festa felici di una / felicità semplice che non puoi dire»), per intesserne favole belle o fiabe a lieto fine, da lasciare in eredità ai posteri, che fungano da viatico, da bussola o da prezioso vademecum.
Così il poeta, dal suo hic et nunc, sospeso tra un passato in cui si riconosce e un futuro che lo inquieta non meno dell’ombra della notte e delle brume dell’inverno, prima che il suo mondo svanisca e perché non svanisca del tutto, erige un monumento alla provincia: un monumento che non è e non pretende di essere aere perennius, ma mira comunque a trattenerla «al limitar di Dite», idealizzandola, «a far memoria / di nomi che rimangono e nessuno [alla fine] / manca in una storia lunga di strade / e vicoli dove ogni cosa sta / fedele alla vita» . Per questo, e non solo perchè alle prosopopee dei personaggi Fedeli sostituisca qui dei ritratti d’autore, la sua provincia non è quella di Spoon River, in cui neppure post mortem la vita appare redenta o almeno pacificata. Diversi sono i valori, diversa l’attitudine grata e fiduciosa nei riguardi della vita. Nessuna grettezza qui, nessuna ipocondria, ma una disposizione nativa al sorriso, alla solidarietà amicale, all’amore: una disposizione che trova magari un limite ma non un ostacolo insormontabile nel riserbo, nella timidezza, nella discrezione.
Certo, individuum est ineffabile e un alone di mistero circonfonde i personaggi, contribuendo a renderli unici, ma questo, lungi dall’inficiarne la cordialità, ne accresce il fascino. Ne fa espressione concreta della dialettalità provinciale, che è sinonimo di schiettezza, spontaneità, autenticità: tutte qualità che nel dialetto trovano la loro cifra esatta. Una cifra che dal linguaggio parlato si estende ai gesti, agli ammicchi, ai modi di fare e perfino ai luoghi, alle cose. A garantirne la genuinità. Ora, Fedeli, per dar voce alla sua epopea della provincia, non ricorre, se non occasionalmente, al dialetto, ma ne asseconda mimeticamente modi e toni, adottando un endecasillabo narrativo che non ha nulla di cantabile e di oratorio né si ispira al linguaggio paludato dei poeti laureati, ma è estremamente duttile, prossimo al parlato, qua e là non privo di sprezzature sintattiche e impostato su una discorsività che privilegia il legato musicale, le audaci inarcature (i versi esitano spesso in congiunzioni copulative o disgiuntive, talora persino in preposizioni) e – come nota Beck – nella lievitazione improvvisa del consueto “realismo esistenziale” verso soluzioni onirico-fantastiche si avvale puntualmente di comparative ipotetiche introdotte da “quasi”, “come (se)”, cui vanno aggiunte le concessive introdotte da “nemmeno”, con paradossali effetti spiazzanti, di bonaria ironia. Ma già lo sappiamo: gli adynata qui, nella provincia di Fedeli, «dove ogni cosa è possibile», sono di casa. L’appartenenza non esclude lo stupore. E – l’ abbiamo già rilevato – chiunque qui può sentirsi eroe «di una terra di mezzo».