Giovedì 19 aprile l’ARAN, l’agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni, e i sindacati confederali hanno firmato il nuovo contratto definito “Istruzione e Ricerca”, che riguarda un milione e duecentomila dipendenti di scuola, università ed enti di ricerca.
Ciò significa che dal mese di maggio i lavoratori della scuola riceveranno dagli 80 ai 110 Euro lordi in più in busta paga. Un’inezia se si considera che l’ultimo contratto siglato risaliva al 2007, undici anni fa.
Ma le novità non si fermano certo qui.
Se la pessima legge del 2015 denominata “La Buona Scuola” aveva almeno un aspetto positivo, ebbene questo è stato cancellato. Si trattava della possibilità da parte dei dirigenti scolastici di assumere direttamente i docenti per colmare i bisogni della scuola. In pratica si toglie ai presidi la possibilità di chiamata dei supplenti che saranno nominati direttamente dal Ministero. Il che avrà come conseguenza che il prossimo anno scolastico vedrà il completamento degli organici non prima di Natale, con evidente discapito per l’insegnamento di diverse materie.
Ma la cosa che sorprende di più è il riconoscimento da parte del contratto delle unioni civili anche tra persone dello stesso sesso.
“Che cosa c’entrano le coppie gay con i lavoratori della scuola?”, vi chiederete voi. C’entra.
Infatti ciò che la legge sottintende è che non solo non è stata cancellata l’odiosa norma che concede un punteggio superiore a quegli insegnanti che lavorano nel loro comune di residenza per via di un non meglio precisato “avvicinamento alla famiglia”, ma questa clausola viene allargata anche alle coppie gay. Ma di rimborsi, sia pur parziali, delle spese di trasporto per chi abita lontano dal luogo di lavoro non si parla nemmeno.
Non manca nel nuovo contratto la possibilità di concedere 90 giorni di permesso alle donne che abbiano subito violenza, definito “diritto alla disconnessione”. Peccato che non venga indicato se ciò valga solo per un anno o per sempre.
Da ultimo sottolineiamo come sia del tutto scomparso dal testo del contratto ogni riferimento al merito. Proprio l’elemento sul quale l’allora governo Renzi, e la sua ministra Fedeli, avevano giocato la maggior parte delle loro carte per far approvare la loro legge dal Parlamento.