“Trota! Tue trota!”
Il mio amico P. è in gran forma. Sta cercando di spiegare il menù del Cavalletto a due ospiti inglesi. Il fatto è che P., semplicemente, non sa una parola di inglese… e loro nessuna di italiano…
I due inglesi sono Dom e sua moglie Angie. Sono arrivati con Dora, gallerista instancabile, bulgara, o meglio, come lei dice , “principessa di Bulgària”. Cerca di animare, da anni e annorum, la sonnolenta vita culturale del borgo.
E Dom è, appunto, un artista. Un pittore (ma è ancora lecito usare questa definizione?) di fama internazionale.
Sta esponendo nella galleria di Dora. Quadri a colori vividi. Strane figurazioni geometriche. O presunte tali. Ci capisco poco. In fatto di arte contemporanea stento ad andare oltre Kandinsky. Ma Dom un po’ me lo ricorda. E… mi piace. Poi, vi sento qualcosa di familiare.
“Sai – mi dice – io ho studiato un periodo a Firenze. E ho girato tutta la Toscana… Piero della Francesca ad Arezzo… gli affreschi del Buon Governo e del Cattivo Governo a Siena…”
Ecco cos’era quella sensazione.. la luce. Più che i colori. Ha qualcosa di rinascimentale. Al di là della figurazione geometrica. Apparentemente lontanissima.
“Purtroppo – aggiunge – ho imparato molte cose… ma non a parlare italiano.”
Già… un po’ l’italiano lo capisce. E io capisco abbastanza bene il suo inglese. Anche perché, gentile, parla lentamente. E gesticola. Per altro la mia comprensione della lingua di Shakespeare è, tutto sommato, decorosa. Ma parlarlo è tutt’altra cosa. Ho fatto il Classico, quando si studiava solo latino e greco.
D. lo sa fare molto meglio di me. E R… beh lei parla fluently, come dicono loro… ma, ora, entrambi, a parlare non ci riescono. E non ci pensano neppure. Sono piegati, come me, in due dal ridere. R. ha addirittura le lacrime agli occhi. Ed è presa dai singulti.
La conversation la stanno, in effetti, sostenendo P. e mio figlio.
Jimmy biascica poche frasi… in fondo è in terza media. Ma non ha paura di sbagliare ad esporsi. Anzi… si butta e intavola discorsi sulle squadre di calcio, il tifo, i cori da stadio… i due inglesi dell’East Anglia ridono. E capiscono.
Il vero spettacolo è, però, P.
Il suo è un inglese perfettamente maccheronico. Parole italiane come “trota” – in inglese “trout’ – pronunciate come “tròtaaa”. Con l’indice che indica, deciso, il tavolo.
Due, two, diventa “tuò”… e non vi dico quando cerca di spiegare il risotto con lo speck. Che diventa “southtirolen ham”.
Anche Gabri, il padrone, è talmente incantato da tale conversation che, per un momento, trascura la cassa… per un momento solo… poi ritorna in servizio.
Alla faccia delle nostre risate, Dom e Angie sembrano aver capito tutto. E mangiano di gusto. Lui si ripromette, anzi, di tornare per imparare l’italiano.
E, a ben vedere, P. ha ragione. E noi torto. Ciò che conta non è la conoscenza di una lingua, ma la volontà di capire e farsi capire. Il dialogo, la conversazione, procede attraverso altre vie che quelle, algide, dell’intelletto.
Siamo al caffè e agli amari. Noi beviamo sambuca (si dovrebbe dire Molinari) con ghiaccio.
On the rocks è facile… ma come tradurre sambuca?
P. ci pensa un po’… poi
“Santa Hole!”
È l’apoteosi .
Foto finale tutti insieme. Con magnum di Molinari. Santa Hole.