In Valsugana. Per una conferenza convegno de “Il Nodo di Gordio”. Tema: “Atlante di un mondo pericoloso”. A Levico Terme. Ma, poi, al solito si va su al Posta, sull’altopiano di Pinè. Luogo, ormai storico per noi del Nodo. Per me, un luogo dell’anima. Per tante ragioni…
E c’è la neve. Lo so, Direttore, ne ho già scritto ier l’altro. Ma dovrai ammettere che una nevicata fitta come questa, ai primi d’aprile si merita anche più di una citazione.
Comunque, neve e freddo. E chiaramente ci si scalda come si può. Con metodi antichi. E grappa.
Solo che io al convegno dovrei parlare. Un intervento per di più in streaming. E mica posso arrivare…beh, diciamo poco lucido.
Il Chairman del Nodo si stringe nelle spalle.
“Beh, male che vada puoi metterti a cantare : e Popòff il cosacco dello Zar, nella steppa sconfinata rotolando se ne va…
Con questa neve , e la crisi ucraina in corso, non saresti fuori tema…”
Già, ci mettiamo a fare un revival dello Zecchino d’oro. Magari con qualcuno che suona la balalaika o la fisarmonica… E poi chiamiamo anche Augusto e facciamo il ballo dei cosacchi…
Solite schermaglie. È da sempre così.
Però il pensiero dei Cosacchi mi resta e frulla in testa
Gente che mi ha sempre affascinato, sin da ragazzo. Quando lessi per la prima volta il “Taras Bulba” di Gogol.
Un romanzo che mi avvinse. E solo in seguito vidi anche il film, con uno straordinario Yull Brinner. Che sembrava uscito dalle pagine del libro…. La lotta dello Zaporovsky contro il dominio lituano-polacco mi aveva affascinato. I cosacchi, non un popolo, ma una comunità di uomini liberi. Anzi, una vera e propria fratellanza guerriera.
Una delle ultime “fratrie”, come esistevano un tempo presso molti popoli. Cavalieri e guerrieri feroci, certo, ma legati da un preciso codice. E, appunto, da una fratellanza che non conosceva gerarchie e autorità se non quelle fondate sul coraggio. E, appunto, riconosciute sul campo di battaglia.
Checché si creda comunemente, i cosacchi non sono ucraini. Come non sono russi, né tatari. Anche se, probabilmente, il loro nome ha proprio origini turco-tatare. E può essere tradotto sia come nomadi, sia come uomini liberi.
E liberi sono sempre stati. Ponendosi al servizio dei principi di Kiev, come degli Zar della Moskovia. Senza però mai essere servi. Anzi, spesso causa di turbolenze e di vere e proprie rivolte. Celebre quella guidata dal, leggendario, Stenkarazin. E quella, ai tempi di Caterina la Grande, di Pugaciov. Che arrivò a rivendicare il trono e la corona di Zar. Storia che fa da sfondo a “La figlia del capitano” di Alexander Puşkin.
E un po’ tutti i poeti e gli scrittori russi sono stati affascinati dai cosacchi e dal loro stile di vita. Da Lèrmontov in “Un eroe del nostro tempo”, la declinazione russa del Werther di Goethe. Sino a Solzenicijn. Che per altro discendeva da stirpe cosacca. E ne andava orgoglioso.
Proprio lui racconta del tragico destino dei cosacchi di Krasnov. Che combatterono contro i sovietici. E che sono anche al centro di un romanzo di Carlo Sgorlon. Lo scrittore che più di ogni altro ha saputo narrare il nostro Friuli, le sue tante storie, le sue innumerevoli fiabe e leggende. Storie in cui entrano anche i cosacchi del Don, che finirono la loro lotta proprio sul nostro fronte orientale. Traditi e abbandonati con mogli e figli, alla vendetta di Stalin. Tanto che a centinaia scelsero la morte gettandosi con i loro cavalli nei fiumi ghiacciati. E sparendo. Leggete di Sgorlon “L’armata dei fiumi perduti”.
E comprenderete come tanti discorsi, che si sentono oggi, che risuonano dai media, siano solo vana propaganda. E come ben poco si capisca di ciò che sono davvero stati i cosacchi. E della loro storia…
Vabbè, dico a Daniele. Male che vada proveremo a cantare Popoff, stasera. Poi, per fortuna, non ce n’è stato bisogno. Sarebbe stato divertente, però…