Il lascito morale e culturale del ’68 è un ballo in maschera di affaristi, arrampicatori sociali e mezzane dell’informazione.
Nato – secondo la mistica dell’apologia – da istanze di partecipazione ai cambiamenti sociali da parte delle classi e delle categorie non rappresentate politicamente con sufficiente forza decisionale, è stato un movimento eterodiretto che ha visto la borghesia oziosa e benestante sovvertire l’ordine della comunità e abbassarlo alla generalizzazione dei vizi e delle pulsioni.
Quello che è rimasto è un individualismo senza freni, dove il senso del dovere e della responsabilità è stato sostituito dalla rivendicazione delle voglie e dalla pretesa della loro soddisfazione egoistica.
Dalla famiglia alla scuola – due dispositivi essenziali del nucleo comunitario – l’obiettivo principale è stato l’abbattimento di qualsivoglia autorità e, con esso, alla polverizzazione di ogni confine, di ogni interdizione, di ogni tabù.
“Vietato vietare” è lo slogan che meglio definisce l’atmosfera disgregatrice dell’epoca.
Dal punto di vista simbolico, l’attacco al Padre – inteso dallo psicanalista Jacques Lacan come funzione della Legge – ha determinato delle ricadute estremamente gravi che si stanno protraendo all’attualità. Il rappresentante psichico del legame e dell’eredità è stato sacrificato sull’altare dell’emancipazione e della presentificazione, finendo a rompere il patto tra le generazioni e abbandonando la gioventù in una bolla virtuale senza un passato da rivendicare e un futuro da immaginare.
La sua “evaporazione”, per usare un termine ormai inflazionato, ha sovvertito lo stesso disegno della natura, innescando la presunzione di diventare ciò che si vuole, ben oltre al freno del “Diventa ciò che sei” di classica memoria.
A proposito del decadimento generalizzato, molti imputano alla politica lo scadimento di qualunque principio e il suo progressivo sfaldamento.
È vero, ma chiediamoci perché. Il ’68 è stato l’anticamera della cosiddetta antipolitica. Ogni ideologia – per usare un vocabolo discutibile, ma comprensibile, di ispirazione ottocentesca – ha sempre avuto la necessità di un leader, di una figura carismatica che la incarnasse, spesso pagando anche con la propria vita tale impegno. Se a destra ciò è sempre stato considerato come naturale, pochi sanno che anche a sinistra vigeva il medesimo imperativo. Come il Padre è il simbolo della Legge, intesa quale esame di realtà, dispositivo di progetto, controllo sulle deviazioni, così il leader ha sempre rappresentato il custode della dottrina, il creatore della visione, la guida verso il destino condiviso.
Con la defenestrazione dell’Autorità, tutto è stato creduto possibile e ogni riferimento ad un centro superiore è stato ritenuto un impaccio superfluo.
Il risultato è stato l’avvento dei manager, dei gestori di un potere spesso non proprio, quando solo portavoce e maggiordomi di ordini e direttive provenienti da altre sedi e con altre intenzionalità.
La Politica, da Arte Regia, si è trasformata in un sistema tecnico-funzionale regolato da un insieme di tattiche che sono finalizzate esclusivamente al mantenimento del sistema stesso. E questa trasformazione ha determinato anche la fine di ogni sovranità, in un mondo senza scopo e senza destino.
Gli agit-prop: da distruttori di ogni Autorità (Padre) a servi di qualsiasi potere (Padrone). Il ’68, insomma, come ogni carnevale, è finito con il ballo in maschera.