Vai in un piccolo paese in qualunque parte delle Penisola e delle Isole. E trovi un asilo intitolato alla benefattrice che, in un passato più o meno lontano, aveva lasciato l’edificio in eredità al Comune o allo Stato. Cambi paese e scopri che la sede del Municipio era stata donata dall’imprenditore tessile che amava soggiornare in quella località. Spesso i benefattori non vengono neppure ricordati da una targa, da un bassorilievo, da una scritta sul muro.
L’Italia, che ha memoria solo per ciò che fa comodo, cancella il ricordo di chi ha dimostrato generosità nei confronti della comunità di appartenenza o di quella che aveva scelto di frequentare per alcuni periodi della propria vita. Una cancel culture in anticipo sui tempi. E non si cancellano, per motivi politici, solo i ricordi del Ventennio, dalle colonie estive per i bambini ai sanatori. Si cancella il ricordo dei benefattori privati dell’Ottocento e dei rari esempi di generosità della seconda metà del Novecento. Vietatissimo citare chi, ancora negli ultimi decenni, ha osato sfidare il buon senso generale regalando denaro per restaurare un dipinto, pubblicare un libro, sistemare una chiesetta cadente.
Scelte comprensibili, d’altronde. In un Paese impegnato solo a prendere, a sfruttare, a derubare, a premiare i furbetti di ogni ambito, la generosità è scomoda, antipatica, odiosa. Il confronto è impietoso, dunque va evitato. Anche perché gli esempi del passato non hanno più seguito. Anzi, il politicamente corretto spinge a considerare come “fastidioso paternalismo” gli esempi di quegli imprenditori che avevano avuto il cattivo gusto di costruire, con i propri soldi, villaggi per i lavoratori con scuola, piccolo ospedale, teatro, chiesa. Tutto sbagliato. L’imprenditore osannato adesso è quello che prende il denaro pubblico per costruire una villa per l’amante spacciandola per foresteria dell’azienda.
Basta con il mecenatismo di chi, con soldi propri, scopriva giovani artisti e li lanciava senza speculare sulle opere realizzate. Ora si chiedono finanziamenti pubblici per acquistare opere d’arte per le proprie gallerie private.
Non che si tratti di una grande perdita. Perché il buon gusto delle Signorie del passato ha lasciato spazio a mercanti d’arte che spacciano per capolavori le tele colorate dallo scimpanzé dello zoo.
Ma il problema vero non è il cattivo gusto ma la totale mancanza di generosità. Quella generosità che viene pretesa da giovani – e meno giovani – invitati con insistenza a lavorare come “volontari” non retribuiti per grandi eventi in cui i protagonisti guadagnano cifre colossali. Ma la generosità degli organizzatori non viene contemplata. Vale per i grandi eventi come per la normale vita lavorativa. I subordinati devono essere generosi e disponibili a lavorare in condizioni critiche, a qualunque ora, con straordinario non pagato, mentre i donatori di stipendio devono pensare agli utili e non hanno tempo per la generosità.