È da lungo tempo che la condizione di vittima ha assunto un ruolo, un requisito di intoccabilità. Essere riconosciuto come vittima permette di accedere ad un privilegio rispetto agli altri comuni mortali. Questa prerogativa caratterizza la nostra società vittimista, dove il sentimento di compassione ha ampiamente sostituito ogni forma di razionalità.
Il tabù vittimario determina una sorta di onnipotenza, e quindi di immunità di fronte alla minima critica, persino all’onere della prova. Perché la certificazione di vittima dà per certo il possesso della verità e di conseguenza l’esclusione di qualsivoglia colpa.
“Il regno dell’emozione compassionevole non si limita a influenzare i comportamenti immediati dell’uno o dell’altro colpevole, ma dà luogo a quella che Hannah Arendt chiama ‘la politica della pietà’”: così la psicoanalista Caroline Eliacheff e l’avvocato parigino Daniel Larivière inquadrano la questione del vittimismo.
Il problema associato a questa atmosfera di commiserazione è quello legato al comportamento dell’opinione pubblica, della cosiddetta società civile, che pretende di poter turbarsi attraverso immagini di alta emozionalità o racconti di struggente impressionabilità, questo anche con la complicità di certo giornalismo sempre “con il gusto della lacrima in primo piano”, per citare Giorgio Gaber.
Tutto ciò è verissimo e documentabile. Per questo ha ragione Barbara Balzarani quando sibila la sua critica nei confronti del vittimismo imperante, però sbagliando – come spesso è accaduto ai brigatisti rossi – di individuare l’obiettivo della critica e, ancora peggio, sovvertendo letteralmente il ruolo della vittima con quello del carnefice.
Perché il grave problema vittimario predominante è quello ribaltare la responsabilità e di confondere i parametri di giudizio.
Il compito di chi si occupa di questa questione è di tenere sempre presente il quadro relazionale tra reo e vittima.
Non è vittima il rapinatore che viene ucciso dall’aggredito, non è vittima della società lo spacciatore carcerato, non è vittima dei maltrattamenti genitoriali l’abusatore di bambini, non è vittima dell’emarginazione l’attentatore suicida, non è vittima del sistema sfruttatore il terrorista omicida.
La legittimazione di certi comportamenti, sempre più convalidata negli ultimi anni, è dovuta al fatto che una certa atmosfera indulgente ha permesso a talune manovrate vittime di “diventare attori mediatici del proprio dramma per occupare infine un posto nella società che solo la catastrofe vissuta giustifica”.
Ritengo che l’“Osservatorio Nazionale per la Tutela delle Vittime”, che ha ufficializzato la sua presenza in Friuli-Venezia Giulia nel Convegno tenutosi a Monfalcone il 9 giugno corrente con l’intervento della sua Presidente avvocato Elisabetta Aldrovandi, abbia proprio questo compito: rompere con lo schema sentimental-retorico attivato generalmente dall’opinione pubblica e porsi al servizio di quelle che potremmo definire le vittime dimenticate. Di quelle ignorate nel calderone pubblicitario, di quelle stravolte dalla manipolazione mediatica, di quelle abbandonate da una certa giustizia popolare, di quelle caricate di una colpa non propria per alleviare quella del suo persecutore.