Dunque, finite ormai le feste, lasciamo perdere le follie collettive che vediamo ogni giorno, e parliamo di… Amore.
Lo so. San Valentino è ancora lontano. Anche se cuori di cioccolato, e “baci”, hanno già sostituito panettoni e pandori nelle vetrine delle pasticcerie… Ma non è questo che intendevo…
Oggi, mi è venuta voglia, una sorta di uzzolo, di parlare del verbo Amare. E delle sue, possibili, declinazioni. Cosa mi abbia instillato questo pensiero…non lo dico. Perché non ha importanza alcuna ai fini di questo pezzo. E poi…scusate, ma sono fatti miei.
Amare è un verbo difficile. Certo, viene dalla prima declinazione latina. La più facile. Quella che si insegnava all’inizio del primo anno di liceo, e, molto tempo fa, delle medie inferiori. Si insegnava… prima della DAD e quando esistevano ancora insegnanti di latino.
E, in genere, si iniziava proprio con “amo – as, amavi, amatum, amare”. Coniugazione facile. Ma solo in apparenza.
Perché il verbo latino Amare contiene in sé una serie infinita di sfumature. Difficili, anzi impossibili da descrivere. Elencare. Catalogare. Troppe. Innumerevoli. Forse, e sottolineo forse, tante quanti sono gli amanti. Ciascuno a suo modo, per tirare ancora una volta in ballo Pirandello.
Il greco è lingua più ricca di sfumature del latino. Di varianti e variabili. Il greco antico, intendo. Naturalmente. E in greco “amare” si può tradurre con tre verbi diversi fra loro. “Agapao, Erotao, Fileo”. Ne ho già parlato. Qui mi limito a un, veloce, riassunto.
Agapao indica l’affetto, il sentimento, la tenerezza. Il voler bene. Se vogliamo buttarla là, le coccole da innamorati e simili, stile baci Perugina a San Valentino.
Erotao è, ovviamente, l’eros. Non semplicemente il sesso. È la sensualità, la capacità di cogliere ogni sfumatura del piacere. È la potenza, immensa, dei sensi. Del corpo, che è non solo carne e ossa, ma magma, fuoco primordiale. Passione che genera le cose. Il potere che ha fatto sorgere dalla materia indistinta l’ordine e la bellezza dell’universo.
Fileo è l’amore puro. Intellettivo. Spirituale. Le affinità elettive di Goethe. Un amare che non necessità del corpo. Forse neppure della presenza…
Tuttavia, anche questo è, a ben vedere, solo uno schema. Un letto di Procuste. Nel quale cerchiamo di costringere ciò che non può essere compresso. Pena la morte dell’anima. E, inevitabilmente, il declino del corpo.
La vita. La vita che urge, pulsa, che è magma e fuoco, aria tersa e tempesta. Sole e tenebre abissali.
Noi chiamiamo ordinariamente “amare” cose, situazioni, sentimenti molto diversi. Sovente che ben poco hanno a che fare con questo. Abitudini, comodità, pigrizia. Convenzioni sociali. E paura della solitudine. Necessità. Semplice appagamento di pulsioni fisiologiche.
Certo, anche queste, in fondo, sono declinazioni possibili del verbo Amare. O il suo degrado in ipocrisia. Parola che significa recitazione. Quindi, finzione. Finzione talvolta in mala fede, per coperti interessi di vario tipo. Nella maggior parte dei casi, però, finzione di cui convinciamo noi stessi. Per la, insopprimibile, necessità di amare che urge dentro di noi. In una sfera del nostro essere di cui ben di rado abbiamo anche solo un vago sentore. E però questa, diciamo così, necessità di amare, si traduce quasi sempre nella necessità di sentirci amati e di pretendere che l’altro corrisponda alle nostre rappresentazioni. Invertendo così l’Amore in egoismo..
Non vi sono in verità amori strani. Tutti gli amori hanno una scaturigine, o meglio nascono da una scintilla pura. Tutti quelli autentici naturalmente, in qualsiasi modo si rivelino e manifestino in seguito. Sono, comunque, una ricerca. Che deve essere inesausta perché non vi è nulla di più mortifiero dell’abitudine. Della monotonia. Che conduce alla fine. O, peggio ancora, alla finzione. Finzione di felicità, che cela solitudine, inquietudine, disperazione. Madam Bovary, e le sue, molte, sorelle.
Per altro, se scomponiamo la parola latina “Amor” viene fuori A-mors. Ciò che non conosce morte. Che non dovrebbe, mai, avere fine. Ma è ben altro che l’equilibrio borghese che porta la povera Emma Bovary alla noia. E al tradimento.
Comunque, prendete queste parole per quello che valgono. Giochi linguistici in una sera d’inverno. La passione dei vecchi filologi. Nulla più.