Ferruccio Bianchi, Solo con la luna piena, Wroclaw 2020
Le vicende narrate in questo noir si svolgono nell’arco temporale di sedici giorni: dal 16 al 31 dicembre 2009, ma analessi ora più ora meno protratte dischiudono spiragli sul passato di alcuni personaggi, su circostanze e particolari della loro vita che li hanno profondamente condizionati, quando non anche segnati a fuoco, indelebilmente, nella loro psiche. È il caso del protagonista, il detective Enrico Border, che la morte della moglie in un’imboscata in Uganda ha piombato in una prolungata depressione: un “viaggio nel deserto” di cinque anni in cui sperimenta in tutta la sua drammaticità l’insensatezza della condition humaine e, di conseguenza, il cupio dissolvi di chi si scopre deietto, “gettato-nel-mondo”, fino al punto di “sentirsi il nulla addosso”.
Ed è pure il caso del serial killer, vittima di un disturbo mentale che ha la sua genesi nell’infanzia, in una ferita dell’anima mai rimarginata e pertanto incancrenita al punto da degenerare in psicopatia. La differenza tra lui e il detective sta nel fatto che, mentre questi riesce, sia pure a fatica, a elaborare il lutto e quindi a intravedere, dopo il suo “viaggio al termine della notte”, l’alba di un nuovo giorno, così da riemergere alla vita e riattivare la socialità consueta, lui non sa riprendersi dal trauma subito. L’incubo non si è stemperato nel ricordo e il bisogno di rimediare alla sofferenza lo ha portato a elaborare un piano finalizzato alla riparazione di quella che lui sente come un’ingiustizia: la separazione dei genitori. Egli la vive come un tradimento che grida vendetta. A prescindere dal suo stesso caso personale, perché, nella sua lucida follia, egli ne fa la fattispecie di un’ingiustizia che lo trascende.
Uccidendo i colpevoli, diventa un giustiziere sociale, quasi fosse investito – da un dèmone o da un dio – di una vera e propria “missione”. Lo dimostra il fatto che nell’uccidere egli asseconda un preciso rituale: le vittime sono colpite da due spari, uno alla testa e l’altro al cuore, il primo per punire “la scelta razionale” della separazione consensuale, il secondo “per colpire l’aridità affettiva” nei riguardi del figlio. Non solo, ma le vittime tengono tutte fra le dita un filo di lana sfilacciato a simboleggiare la volontaria rottura dell’unione matrimoniale. Nella follia del killer c’è dunque metodo: il suo modus operandi denuncia una evidente razionalizzazione, come se sui suoi delitti mettesse la propria firma. Quasi una sfida alla sagacia degli investigatori, se non anche un urlo di disperazione.
E diciamo questo perché la rappresentazione del killer sottende una componente folklorica, che rimanda da un lato alla tradizionale credenza nel licantropo o lupo mannaro e dall’altro allo stereotipo fiabesco del bambino abbandonato nel bosco, come Pollicino (il Petit Poucet di Perrault), come Hänsel e Gretel. Ed è proprio alla fiaba di Hänsel e Gretel che s’informa il sogno ricorrente del killer: «Aveva sentito che i genitori volevano abbandonarlo perché avevano esaurito tutte le scorte di carezze. Quelle che restavano dovevano servire a loro. Abbandonato nel bosco vagava per tutta la notte senza ritrovare la via di casa. Sorgeva la luna piena e sentiva l’ululato dei lupi. Si sentiva minacciato e cominciava a correre disperato chiamando papà e mamma, ma non rispondevano» (p. 408). L’accenno alla luna piena e ai lupi non è casuale, se a p. 323 il killer è detto, appunto, “giustiziere mannaro”, e dall’antropologia sappiamo che il licantropo altro non è che un uomo posseduto da un dèmone, il quale di notte, alla luce della luna piena, lo trasforma in lupo. Ora, Border, indagando sulle date dei delitti contraddistinti dalla summenzionata cifra rituale, scopre che essi sono avvenuti “solo con la luna piena”, come recita il titolo stesso del libro. Tutto torna, dunque, come in una equazione matematica.
Ma, a complicare la vicenda, intervengono altri fattori, a cominciare da alcuni assassinii a colpi di mannaia e da altri commissionati a un killer professionista: una macchietta, questa, pari pari desunta da tanti film d’azione ed emblematicamente connotata dalle imprescindibili scarpe di coccodrillo. E dietro questi altri delitti, che mettono a dura prova la polizia, peraltro intralciata dai Servizi segreti, si nascondono torbide storie, faccendieri internazionali, lobbies, comitati d’affari di più che dubbia moralità e vorticosi giri di escorts. Tutto improntato al cinismo più sfrontato, quale, del resto, dichiara il capo stesso dei Servizi segreti: «Nel nostro lavoro la verità è quello che ci è utile per raggiungere gli obiettivi istituzionali, senza concedere vantaggi ai nemici» (p. 316). Per questo essi si sentono autorizzati ad “agire fuori delle regole”. Eppure i loro sforzi non approdano a risultati di rilievo, ed è chiaro che l’Autore si diverte a inscenare il loro concitato muoversi a vuoto, sempre in ritardo, sempre trafelati a inseguire gli eventi che dovrebbero invece prevedere e prevenire.
Allo stesso modo la polizia, capeggiata dal mediocre Morlotti, succeduto a Border nel ruolo di commissario, dopo che questi era stato declassato a “detective dei casi insoluti”, brancola nel buio. Morlotti, irascibile ed autoritario, non riesce a cavare un ragno dal buco e diventa pertanto il bersaglio della stampa. Il colbacco che egli indossa continuamente e la sua stessa suscettibilità ne fanno il soggetto privilegiato dei vignettisti e degli stessi uomini che comanda, alcuni dei quali, valenti ma disamorati, parteggiano per Border, che sanno colto e perspicace, di gran lunga superiore al loro attuale capo. Il quale, esacerbato dagli insuccessi e dagli attacchi dei giornalisti, nemmeno si avvede del disagio in cui vive la sua povera moglie, da lui trascurata e ridotta al ruolo di governante. Stanca di “una esistenza grigia” e di una “routine senz’anima”, ella cerca sfogo e consiglio scrivendo a una rubrica di Cuori infranti e si lascia tentare da un’avventura extramatrimoniale. Tutto, però, si esaurisce in una serie, umoristica anch’essa (in senso pirandelliano), di atti mancati, perché la donna non sa davvero risolversi a saltare il fosso. D’altra parte, quando meno se lo aspetta, il marito, a sorpresa, si rivela meno gretto e insensibile di quel che pareva.
Se questa e altre vicende rasentano la pochade, altre invece presentano risvolti veramente drammatici, in particolare quelle concernenti Nikita Goncarov e Alessandra Sucharov, protagonisti di una back-story che risale alla Rivoluzione d’ottobre e, attraverso i loro discendenti, si snoda romanzescamente, tra agnizioni e travisamenti, esperienze concentrazionarie e fanatismi ideologici, lungo l’intero Novecento sovietico e oltre.
Tante, forse troppe storie, verrebbe da dire: che rischiano di fare di questo thriller psicologico un minestrone, se non fosse che la tecnica, per così dire, cinematografica adottata da Bianchi gli consente, sia pure con qualche fatica, di reggere le fila del complesso intreccio. Anch’egli, come “il buono sonator” dell’Ariosto, “spesso muta corda, e varia suono, / ricercando ora il grave, ora l’acuto”, e lo fa ricorrendo a sequenze narrative che, attraverso frequenti cambi di location, gli permettono di seguire i vari filoni narrativi tanto nella loro simultaneità quanto nella loro successione: tutto all’interno delle singole giornate. Così sono i personaggi a creare il movimento e l’azione, senza troppe interferenze autoriali, e sono sempre loro, attraverso i dialoghi o le loro reminiscenze, per lo più innescate dalla memoria involontaria, ad alimentare la narrazione. Una tecnica cinematografica, dicevamo: la stessa che troviamo, ad esempio, nei film della saga di Bourne. Molto, del resto, deve il libro a suggestioni provenienti dal cinema: oltre a quanto abbiamo già detto, ricorderemo l’Osteria di Callaghan, che è dichiaratamente “una sorta di omaggio al personaggio interpretato da Clint Eastwood”.
Ma l’aspetto del romanzo che più abbiamo apprezzato è l’acume psicologico di cui Bianchi, ancora una volta, dà prova e che è per lo più concentrato nella figura del protagonista, Border, sensibile e intuitivo come pochi e come pochi capace di calamitare la simpatia di quanti vengono con lui a contatto, nonché di valorizzarne l’umanità talora misconosciuta e mortificata. C’è in lui una recondita nostalgia dei valori comunitari, di più cordiali rapporti umani e pure delle cose buone e genuine del tempo che fu, ma c’è soprattutto il sacro rispetto dei sentimenti, perché dal nichilismo che incombe nulla ci può salvare al di fuori della “pienezza che i sentimenti sanno dare alla vita”. Sbaglieremo dunque a ravvisare nella figura sorniona e un po’ introversa del detective una qualche compiaciuta proiezione autobiografica dell’Autore?