C’è un libro che ho letto molto, moltissimo tempo fa. Un’opera poco diffusa in Italia. Ma che è uno dei massimi capolavori della letteratura russa. Qui, da noi, anche per le persone di buone letture – specie ormai ridotta a livello dei panda o del diavolo di Tasmania – letteratura russa significa Tolstoj, Dostoevskij… per i più raffinati Gogol e magari Turgeniev. Punto. Ma di Puşkin…
Certo si sa che era un poeta. E, probabilmente, i diversamente giovani, come me e il Direttore, ricordano il film “La figlia del capitano”, tratto dal suo romanzo. Ma ben pochi ricordano, e ancor meno hanno letto, il suo autentico capolavoro. “Eugenij Onegin”. Che è un grande romanzo, ma con un difetto. È scritto in versi, con l’uso dell’ottava inventata dai poeti cavallereschi del nostro Rinascimento.
Solo che non è un poema, bensì un romanzo con temi, e situazioni, comparabile al “Piacere” di D’Annunzio…. Perché Eugenij ha già l’atteggiamento del Dandy, anche se siamo in pieno romanticismo russo. Annoiato, cinico. Passa da un’avventura all’altra. Senza mai coinvolgimento sentimentale. E quando la giovane e ingenua Tatiana gli dichiara il suo amore – con una lettera che gli studenti russi tutt’ora imparano a memoria – lui la tratta con distacco. Con freddezza paternalistica. Quasi con ironia.
Poi passano anni. Le avventure di Eugenij, duelli, esilio, l’uccisione di un amico, donne, tradimenti… E infine, per caso, reincontra Tatiana. Che è diventata una donna stupenda. Ma è sposata. Eugenij si rende d’improvviso conto di amarla. Che è l’unica donna di cui si sia mai davvero innamorato. Ma è troppo tardi.
Il tema, come dicevo, sembra anticipare il D’Annunzio di Il Piacere. E anche il Verga scapigliato, quello di “Eros”, che influenzò non poco D’Annunzio. Sotto altri punti di vista, però, vi è una remota eco di “Le relazioni pericolose” di Cholderos di Laclos. Ben note a Puşkin….
Tuttavia non è di libertini e dandy che voglio parlare. Eugenij Onegin mi fornisce solo lo spunto per riflettere, o forse più che altro divagare – in fondo i miei studenti mi avevano soprannominato, molti anni fa, il Dottor Divago – su altro tema. Che ha a che vedere con il Destino.
Pensateci. Eugenij se la ride dell’amore di Tatiana. E poi si rende conto di amarla. Ma è troppo tardi.
Valmont, nelle Relazioni, seduce con cinismo la povera e casta Madame di Tourvelle. Ma poi, quando lei sta morendo, si rende conto di amarla. È troppo tardi. E, quindi, non gli resta che farsi uccidere in duello. Straordinaria, nel film del 1988, l’interpretazione di Malcovich. Soprattutto nella scena finale…
Comunque, in entrambi i casi, i due protagonisti si amano. E, quindi, ci sarebbero tutti gli elementi per un finale rosa. E vissero felici e contenti… per quanto felici possano vivere gli esseri umani, chiosa però don Lisander, il Manzoni…
Solo che si amano reciprocamente… ma non contemporaneamente. Ovvero uno ama, e l’ altro scopre di amare dopo. Quando è ormai tardi. Una discrasia temporale che fa, di quelli che potevano essere romanzi rosa a lieto fine, delle autentiche tragedie.
Tragedie sulle quali incombe la fatalità. Il gusto beffardo del destino di giocare con le vite degli uomini. Perché, sovente, non siamo coscienti di ciò che proviamo veramente. Troppi veli dentro di noi. Troppe cose che… ci distraggono. È come essere in stazione. Il nostro treno arriva. Ma noi non ce ne rendiamo conto. Siamo presi da altro. Assorti nei nostri pensieri. Tormentati dalle nostre preoccupazioni quotidiane. L’altoparlante annuncia il binario e l’imminente partenza. Ma noi stiamo guardando un negozio di chincaglierie cinesi. Ci sembra più interessante. Più importante. Poi il treno parte. E noi siamo a terra. Ci rendiamo, all’improvviso, conto che sarebbe importante averlo preso. Che poteva essere il viaggio della nostra vita. E corriamo al binario. Solo per vederlo svanire in lontananza. Restiamo lì. Soli. Con l’amaro in bocca. E con il dubbio – che è poi la cosa peggiore – di che cosa poteva essere prendere quel treno. Un dubbio che non ci abbandonerà più.
Noi pensiamo di conoscere noi stessi. I nostri sentimenti. Ciò che vogliamo e ciò che non vogliamo. Ma in realtà spesso è un auto inganno. Siamo esseri molto più complessi e meno compatti di quanto crediamo.
Il Destino, o come diavolo volete chiamarlo, gioca con queste… discrasie. E si fa beffe della nostra pretesa di governare tutto con la ragione. Che è algida di suo. E va bene per misurare e pesare. Ma emozioni e sentimenti non si pesano e non si misurano.
Triste… potrebbe anche essere disperante. Se non fosse che anche il tempo lineare è, a ben vedere, solo illusorio. E che in un’altra dimensione, in un’altra vita per chi ci crede, si rivolge su se stesso. E allora il treno ritorna. E Eugenij risponde in altro modo alla lettera di Tatiana….
1 commento
A volte si legge per strada, mentre si cammina per arrivare alla fermata di un autobus, impazienti,tanto da non riuscire ad aspettare neppure il momento in cui ci si ferma.Si legge rapidamente, sotto il sole delle 14, troppo forte per mettere a fuoco ,si legge con” ingordigia” che ci fa “ingurgitare” anelate parole ,saltandone alcune, ma solo apparentemente, poiché di tutte, nell’ immediato, abbiamo percezione, cogliendone il senso,l importanza,quasi in maniera tumultuosa(che non è superficialità) e , contemporaneamente, sono esse stesse a trovarci, a fornirci i connotati, a darci una forma,plasmarci,nel nostro continuo,biunivoco,divenire.
Il rumore delle automobili si fa ovattato, mentre il testo ci dà una visione e ci troviamo a vivere altrove.
È il potere della parola, descritto in una frase di Flaiano, così come in uno stralcio di una lettera di Kafka,due riflessioni scoperte qualche anno fa e che,in certi momenti, mi tornano in mente e posso andare a cercarle.
Le parole che ci toccano e nelle quali, talvolta,quasi giungiamo ad identificarci nel senso più letterale e profondo insieme e fino a vestire perfino i panni dell’ eroina!
Quando si giunge alla fermata, benché la lettura sia terminata, il turbine,da essa generato, si è fatto pervasivo,sempre più perturbante(forse anche perché certe letture potremmo definirle propedeutiche),in quanto non trova una via di sfogo, e non può placarsi nel silenzio.
Sarà per questo, forse,che ci si ritrova sperduti, in una scena di tempo sospeso, quando una lacrima si fa strada sul viso impolverato,e lava e scava insieme.
“Piangi cuore-verrebbe da dire-,non tutto è perduto!”.
Tanti i dubbi, poi,che hanno preso il sopravvento, insieme a sprazzi di memoria,di cui siamo ancora fatti e che,talvolta,porta con sé un passato che ricorre in un nuovo corso,quello a cui si era destinati,e che, forse,non conosce discrasie.
Io che ho letto solo qualche citazione di quel libro di Puskin,io che no so niente di lui come di altri,alla vista di quel titolo e del suo nome,mi sono ritrovata un quadro negli occhi, che mi colpì per caso anni fa ed il suo autore,per fortuna:Leonid Pasternak(padre)-“Aleksander Puskin sul mare(su una scogliera)”.Il poeta che, sotto la sguardo della luna, contempla l immensità che solo lui sa cantare.
E, così,dal DIVAGO che siamo, tornammo allo Zivago.