Premetto e confesso che non apro e non leggo nemmeno gli articoli e le interviste sulla convention di Fratelli d’Italia: mi limito a scorrere i titoli, per constatare come, nei confronti di Giorgia Meloni e del suo partito, vi sia ormai un trasversale atteggiamento di condiscendenza. Nessuna ostilità, neppure da Repubblica. Giorgia anzi è una utile, simpatica pedina dello scacchiere di conformismo che condiziona la politica, la società e i mass media italiani. Indipendentemente da ciò che dice e che però, ascoltato distrattamente durante i servizi di giornali radio e telegiornali, non mi pare sostanzialmente diverso da ciò che ha detto Enrico Letta pochi giorni fa.
Certo, in apparenza i contenuti politici e le priorità sono molto diversi, ma la sostanza è quella che gli analisti più lucidi e cinici evidenziano a proposito del duello presidenziale francese: la macchina del consenso continua imperterrita a muovere in direzione di un vago ecumenismo, in grado di tenere dentro tutto e il contrario di tutto. Come è inevitabile nel momento in cui le norme elettorali contrappongono due candidati oppure due blocchi. Non si può certo sperare di vincere sfoderando alternative estremistiche, si deve convergere al centro, mostrando una patina di differenziazione che però non allarmi le maggioranze silenziose. Questa è la ragione per la quale, come dicevo, ormai non mi sforzo più nemmeno di leggere qualche riga delle dichiarazioni di leader in carica o in pectore che comunque, per confermarsi o affermarsi, dovranno inevitabilmente assecondare il conformismo imperante.
L’unico elemento di minima differenziazione identitaria è che, sia in Francia sia in Italia, a rappresentare la cosiddetta destra sia una donna. Non si tratta di un caso, anche se ci sono e ci sono state donne presidenti della Repubblica o del governo di orientamento diverso. L’attuale leadership di Giorgia Meloni e di Marine Le Pen rimanda a una tendenza in corso da qualche decennio, per la quale la destra cerca di rendersi più presentabile inserendo nelle posizioni di rilievo o addirittura al comando donne (Margaret Thatcher, Angela Merkel, per citare le due più illustri). Ma anche rappresentanti di altre categorie tradizionalmente inserite nell’immaginario progressista, per esempio omosessuali, persone disabili e di origine straniera. Non so quanto questa modalità inclusiva risponda a una strategia ma di sicuro Silvio Berlusconi la adottò scientemente. D’altra parte il Cavaliere, piaccia o meno, a distanza di ormai 30 anni resta l’autore del più significativo tentativo politico che la destra possa vantare nel nostro paese.
La banale considerazione sopra esposta porta a una sola e altrettanto ovvia conclusione, cioè che l’unica vera alternativa di destra sarebbe quella capace di affrontare alla base le contraddizioni di un sistema democratico-parlamentare ormai del tutto inadeguato a rappresentare società dinamiche e complesse come quelle contemporanee. Ma percorrere una strada simile, per formazioni politiche che si portano appresso stimmate politicamente scorrette come il razzismo e il neofascismo, è impossibile. Proprio per questo sta verificandosi il contrario, assistiamo cioè a un paradosso speculare a quello della “destra femminista”, l’affermazione di una sinistra che, in alleanza con quello che rimane dei grandi potentati economici e finanziari, propone e adotta misure di drastica riduzione dei diritti civili e politici. Ci incamminiamo verso dei regimi sostanzialmente autoritari, nei quali le ritualità democratiche saranno fatte salve ma in cui, sempre di più, sono leader non scelti dal popolo a imporre norme e decisioni per le quali i parlamentari devono dare solo un avallo formale.