Talvolta, di questi tempi, mi viene nostalgia del dialetto. Ed è una nostalgia ben strana. Per due, precise, ragioni.
In primo luogo perché io non sono mai stato abituato a parlarlo, il dialetto. A casa mia, se non si fosse parlato, come si faceva, solo in italiano, sarebbe stata una Babele. I miei erano sì nati nel Veneto, ma mio padre di famiglia salernitana, e mia madre metà lombarda e metà piemontese. E poi Mestre non era una città – se così possiamo definirla – veneta. Ma di importati. Il mio migliore amico era di padre triestino e madre milanese. Un altro pugliese, un altro ancora metà marchigiano e metà di Vercelli…. e via così…

Poi io, in modo abbastanza ideologico, non ero favorevole ai dialetti. Ovvio, avevamo la lingua italiana, la lingua di Dante e Petrarca, Machiavelli e Manzoni… e ci doveva bastare. Anzi, andava difesa con le unghie e con i denti. Contro gli orridi neologismi importati da oltre Atlantico. Ma anche contro le insorgenze del particolarismo dialettale, che mi sembrava venissero a frammentare l’ultimo straccio della nostra, fragile e incerta, dignità nazionale…
Ero giovane. E non era ancora il tempo della nostalgia. Come dice Leopardi, troppo breve della memoria il corso…
Ora, certo, è molto diverso. Ho letto più libri. Soprattutto pensato di più su quello che leggevo… Ho scoperto come i dialetti abbiano non solo una loro dignità letteraria, con autori come il Ruzante e, per venire ben più vicini a noi, il Giacinto Gallina… O, per non fare troppo il nazionalista Veneto, il Porta a Milano, Pascarella e Belli a Roma… o che so, il teatro di Gilberto Govi a Genova, senza dimenticare lo straordinario, ultimo Fabrizio De André, quello di Creuza de ma…

Soprattutto, però, ho capito che i dialetti non sono solo delle nicchie, dei piccoli scrigni di tesori linguistici sepolti, o, peggio, delle riserve indiane. Sono, anche e sopratutto, degli affluenti. Che portano sempre nuove acque ai più grandi fiumi delle lingue nazionali. Acque fresche. Vitali e vitalizzanti. Senza l’apporto delle quali, i fiumi rischierebbero di inaridire. O, peggio, di diventare paludi. Di qui, solo per fare qualche esempio, la poesia di Zanzotto ne “Il galateo in bosco”. O il recupero di un dialetto gradese arcaico da parte di Biagio Marin… Per non parlare degli straordinari impasti linguistici di Gadda…
Ma non è solo questo. La mia nostalgia ha radici più profonde. Non è solo un recupero intellettuale.
Radici, appunto. Perché nelle sonorità delle parlate dialettali – tutte, da quella di casa mia alle più remote nella Penisola – avverto, a tratti… un qualcosa. Un affiorare di un mondo che è stato. Ed ora appare scomparso. Un mondo di gesti ed usi semplici, privi di affettazione. Essenziali. Come dei riti arcaici. E mi sembra allora di capire Pasolini. La sua poesia friulana. Che contrasta, nella sua delicatezza e forza , con la prosa greve, a tratti brutale, dei romanzi “romani”. Nostalgia da anacronista. Di culture contadine che, in fondo, si celano nell’animo di tutti noi. Ormai inglobati, oserei dire corrotti, nelle città formicaio prive di identità.

Omologazione è termine che, sinceramente, non mi piace. E che evito di usare. Piuttosto… annichilimento.
Perché questi alveari in cui viviamo ci hanno, a poco a poco, portato al… nulla. Al vuoto di relazioni personali. Al recidere legami e radici. Che oggi è giunto alla sua forma parossistica. Ossessiva. Assurda. Che si esprime, anche, a livello linguistico. In una sorta di gergo corrotto, zeppo di pseudo-anglicismi di cui per lo più non sappiamo neppure il significato. Un gergo povero e insterilito. Che dà voce solo ad una squallida solitudine.
Nostalgia dei dialetti, allora. Di quando le persone avevano un volto. E esprimevano la loro vita con parole semplici. E straordinariamente armoniose…