Tu, quando scrivi, fingi sempre di parlare con qualcuno. I tuoi studenti, o, di recente soprattutto, un’amica. Ma quante amiche hai? E che razza di domande ti fanno, soprattutto…
Già, non ha tutti i torti. Molti di questi miei scritti, frammentari e abborracciati, hanno la forma di dialoghi… Anche, questo, appunto, perché mica sto perdendo il vizio.
Fingo…è giusto, ma nel senso etimologico del termine. In latino “fingere” significa imaginare. Ma non in astratto. . Evocare immagini piuttosto… e così quando fingo di parlare con qualcuno o qualcuna, questi mi si presenta. Si palesa come se ce l’avessi davanti. E parliamo. Diventa un dialogo. Che, certo, spesso prende spunto da qualcosa che mi è stata veramente detta o, visto ormai l’ uso /abuso dei Social, scritta. Ma non sempre necessariamente. Perché ci sono persone la cui sola presenza – anche imaginale, fantasmatica – solleva certi temi. Suscita domande e riflessioni. E questo vale soprattutto per le Donne. Perché la Donna è, sempre, lo specchio nel quale ti puoi finalmente vedere. E conoscere. Almeno per me… che, ovviamente, non faccio testo. Sono un vecchio maschilista, reazionario, politicamente scorretto. Un dinosauro in via di estinzione…
Ma torniamo alla forma, finta o vera, del dialogo. Che è – un’ovvietà sottolinearlo – alternativa al monologo. Al soliloquio interiore, ma meglio sarebbe dire, che parliamo sempre e soltanto con noi stessi. E di noi stessi. Di fatto abbiamo abolito il dialogo. Come notò, forse per primo, Leopardi. Che vide come la civiltà della conversazione fosse ormai tramontata. Tutti urlano, scrisse, per farsi sentire. Nessuno più ascolta. Ed è così per la poesia, ridotta a sola Lirica. Ovvero a parlar di se stessi e dei propri stati d’animo. Così per la prosa, sia narrativa che saggistica.
Diciamo la verità. L’autobiografismo è una caratteristica e, quasi, una ossessione dei nostri tempi. E noi ci illudiamo che sia un segno di… progresso. Il grande mito, l’idolo del nostro tempo.
Invece, la tendenza autobiografica è, spesso, indice di immaturità. O addirittura di infantilismo. Pensateci… un adolescente con la passione della scrittura – sempre più rari, ma comunque alcuni ancora vi sono – vuole raccontare la sua vita. Le sue esperienze. Esperienze che ancora non ha avuto. Vita che deve ancora vivere.
È avvolto in una sorta di nube, che gli impedisce di vedere altro da sé.
Lo scrittore vero, quando matura, ha due strade. Mimetizzarsi il più possibile dietro alla storia dei personaggi che inventa. Oppure trasporre il proprio io in questi. Il primo è Pirandello, il secondo D’Annunzio. In entrambi i casi, però, oggettiva la narrazione. Crea uno jato. Un distacco. E, così, conosce e si conosce.
Il dialogo è stato, da sempre, la forma privilegiata del ragionamento. Platone, Cicerone…. anche Aristotele ne scrisse, ma non ci sono giunti. Ci sono pervenuti, invece, i trattati, che erano, però, diretti a specifici discepoli. E, quindi, in qualche misura sempre una forma di colloquio. Come per Seneca, che non a caso intitola Dialoghi dei Monologhi lezioni. Perché sta parlando comunque con qualcuno che ascolta. Lucilio, Paolino… ed è come se li avesse lì davanti
E il dialogo, diretto e non, è rimasto la forma privilegiata dal Rinascimento all’età moderna. Da Castiglione e Della Casa a Leopardi. Da Aretino al Foscolo del Didimo Chierico…
Paragonare i mie frammenti con tali colossi sarebbe albagia. Peccato di tracotanza. Ubris imperdonabile. Però, io, quando scrivo queste noterelle di vari temi e varia umanità, avverto spesso la necessità di dialogare con qualcuno.
Anzi, avverto una precisa presenza. Un amico, un allievo, una Donna… Senza, non riuscirei a scrivere. Perché non sarei in grado di vedere. Di uscire, anche solo per poco, da quel bozzolo onanistico di stati d’animo, paure, egotismi che ordinariamente mi imprigiona e acceca. E che siamo, chissà perché, abituati a chiamare “pensare”. Mentre è tutt’altra roba…
1 commento
Dalle riflessioni finali si evince, anzitutto,la necessità,il bisogno di dialogo,che resta alla base della conoscenza,del mondo e di sé,in quanto scambio di spunti e visioni, dialettica su cui si basa la vita stessa, anche per coloro che vivono ritirati per scelta, poiché quasi certamente sì nutrono di parole cartacee.
E poi il desiderio di dialogo con qualcuno,evocato in noi dalla memoria o dal cuore(che in verità coincidono), magari un’unica persona che racchiude persino quelle diverse tipologie, amico, allievo ,donna .
Si dice in sintesi, a mio avviso, che ogni monologo sarebbe destinato ad una lenta,ma ineluttabile fine, se non fosse rivolto all altro da sé o,almeno,pensato per quello e partendo da quel desiderio di presenza, di immaginarlo anche nell’ assenza.Senza l altro ci guardiamo ad uno specchio come narcisi,pieni di rughe,solchi nei quali ci resta solo di seppellirci.
Se l altro scompare o se quel nostro fingere si fa flebile fino a non offrirci più visioni, poiché ormai troppo insicuri,dubbiosi, increduli,allora il monologo stesso imploderà,soliloquio senza eco, senza voci,senza risposte,destinato alla non parola, al mutismo della dimenticanza,fino a vedere, riflesso nello specchio,il nostro viso in una trasfigurazione di F.Bacon.