Camminavo per la strada. Una strada fra le tante, di questa immensa periferia /dormitorio che ci ostiniamo a chiamare Roma…
Va bene, lo so…Non è poi così immensa, soprattutto se la confrontiamo a mostri come Città del Messico e Shangai… Tuttavia è vasta, una macchia oleosa che si va sempre più espandendo, inglobando vecchi borghi e contrade. Annichilendo, progressivamente, le differenze che contraddistinguevano, un tempo, quartieri storici e borgate. Tutto riversato in un unico, ribollente, calderone….
Comunque, camminavo tranquillo. In una stradina senza macchine. Un meriggio assolato, di domenica. Camminavo guardando per terra. Le buche nei marciapiedi romani sono, decisamente, molto più pericolose di ogni, più o meno fantomatico, virus. Strano che nessuno abbia ancora pensato di imporci un vaccino contro fratture e slogature…o proclamato un lockdown perché camminare su queste strade può nuocere alla salute…
Camminavo. E, improvvisamente, sento…un profumo. Un profumo naturale, intendo. Non di un qualche prodotto chimico che una panterona tutta bistrata o un aspirante toy boy tatuato e palestrato si sono versati addosso a profusione dopo la doccia. O, peggio, senza farsi la doccia, in omaggio all’invito patriottico a non lavarsi per aiutare l’Ucraina. E sconfiggere l’impero del Male.
No, un profumo di…fiori. Più esattamente di sambuco. Che, con ogni probabilità, proveniva da qualche giardino lì intorno. Invisibile alla vista. Ma non all’olfatto. E che, recato da un vago refolo d’aria, s’espandeva nel calore del sole. Diventava di incredibile intensità. Avvolgeva ogni cosa.
Un tempo, un tempo sempre più lontano ormai, sentire il profumo, intenso, del sambuco era cosa usuale. Soprattutto in questa stagione, tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate. Quando la sua fioritura giunge all’apice, e poi, rapidamente, declina. In fondo, il sambuco è ciò che resta di quella che era la vegetazione spontanea. Che cresceva un po’ dappertutto, senza bisogno di essere curata o coltivata. Dalla pianura sino a mezza montagna, 1400 metri più o meno.
In certo qual modo è un relitto che la risacca del tempo ci porta da epoche remote. Quando l’uomo ancora non coltivava la terra “col sudore della sua fronte” , ma viveva di ciò che questa, spontaneamente, gli offriva. La condizione dell’Eden. L’Età dell’Oro di cui parla Esiodo.. Un po’ in tutte le tradizioni, in tutte le cosmologie è presente questa strana memoria. Strana, perché è, sempre, una memoria felice. E la scienza, la moderna paleontologia, ci dice, invece, che la vita dei nostri remoti avi, i cacciatori raccoglitori del paleolitico, era dura. Durissima e breve.
Vivevano appena una manciata di anni. Ben pochi superavano i tre decenni. Si riparavano in spelonche. Cacciavano e venivano cacciati.. Bruce Chatwin, scrittore che ho sempre molto amato, ci ha lasciato pagine di, fantastiche, divagazioni sul tema. In particolare quando parla degli uomini come preda prediletta di una specie di smilodonte. Che sembra trovasse e nostri antenati particolarmente gustosi.
Comunque, non occupavano, certo, il vertice della catena alimentare. Non dominavano il mondo…
Eppure, nella memoria quella è l’età dell’oro. Quel mondo selvaggio e primitivo, il Giardino dell’Eden. E qui verrebbe da pensare che, come usa dire mio figlio, non ce la raccontano giusta. Anche perché, ogni tanto, viene fuori la notizia di (più o meno) nuovi ritrovamenti archeologici. Città, grandi costruzioni templari. Luoghi di culto e abitazioni. Che sembrano risalire a molti millenni prima della, famosa, Rivoluzione Neolitica. Quando, semplicemente, non ci sarebbero dovuti essere. Perché si viveva in grotte, in piccoli gruppi, con una cultura spirituale praticamente assente… Almeno così ci dicono e insegnano. Poi queste notizie vengono messe in sordina. Si fa finta che non ci siano. Si insabbiano. Per non mettere in discussione quel quadretto oleografico che chiamiamo Preistoria…
Ma che c’entra tutto questo con il profumo del sambuco?
Beh, intanto già nel titolo ho premesso che si tratta di una divagazione. A partire dal sambuco. E quando uno divaga, divaga…mica può sapere dove andrà a parare….
Poi il sambuco è una pianta particolare. In verità tutte le piante sono particolari. Ma il sambuco esagera.
Offre spontaneamente dei fiori che, oltre ad emanare un profumo intenso e seduttivo, sono ottimi da mangiare. Vecchia tradizione contadina, diffusa un po’ in tutta Italia. Li si impastella e frigge. Con lo zucchero sopra, sono una vera leccornia. Perché – sia detto per inciso – utilizzare fiori in cucina, non è una moderna invenzione degli chef stellati, ad uso di snob alla moda. È qualcosa che, nelle nostre campagne, si è sempre fatto. Non si sprecava nulla di ciò che la Natura offre. Il vero ambientalismo era quello. La memoria della Età dell’Oro.
E dal sambuco si ricava anche uno sciroppo dolce, con proprietà toniche. E un tempo anche la famosa Sambuca. Anche se, oggi, si tende piuttosto ad utilizzare l’anice. Che presenta meno…rischi.
Già…perché la nostra pianta contiene anche cianuro. In alcune varietà in forma minima, tanto che le dona proprietà lassative…ma in altri casi è pericolosamente tossico. Velenoso, quanto le ben più note mandorle amare.
E anche qui possiamo vedere come, in natura, il dolce e l’amaro, il veleno e il farmaco siano sempre, inestricabilmente, intrecciati. È il concetto greco di pharmakòs. Ciò che cura può uccidere. E ciò che uccide, può curare. L’arte dell’uomo è comprendere questo. E saper operare le giuste scelte. Il raccoglitore del paleolitico conosceva il mistero a due volti della Natura. La Dea che poteva essere luce, così come tenebra. Era sapienza empirica. Intuizione. Ciò che abbiamo perduto affidandoci, con cieca fede, ad una scienza astratta. Manipolata da pochi. Spesso nel loro esclusivo interesse.
E poi dal sambuco, i ragazzi di un tempo traevano anche giocattoli. Quando i giocattoli non venivano comprati in negozio, o, come, oggi, video giochi scaricati da internet.
Erano semplici, poveri, creativi. I rami del sambuco, leggeri, svuotati del bianco midollo, diventavano cerbottane. O anche rudimentali, e inventivi, schioppi.
Anche questo, in fondo, un’eco del passato remoto. Un retaggio ancestrale…
E, poi, questo profumo è fantastico. Leggermente inebriante. Rende piacevole camminare in un mezzogiorno assolato. In una via deserta, sporca, l’asfalto sbrecciato. Ti fa dimenticare dove ti trovi. Per un attimo, mi è sembrato davvero di essere sulle soglie di un giardino incantato. E ho vagheggiato una sorta di Eden.
Poi, mi sono messo a scrivere…
1 commento
Bello che qualcuno canti le lodi del sambuco, pianta multiuso che orna le macchie di verde. Ogni anno ne faccio uno sciroppo con i fiori e più in là un gelee con le bacche. Ma anche senza “usarla” la pianta è benefica a lasciarla lì, dove sta, in gruppo con le sue sorelle.