“Ma tu l’hai mai assaggiata una brioche col tuppo? Che nella forma ricorda l’acconciatura delle donne di un tempo? – mi dice un’Amica siciliana – accompagnata ad una granita. Una granita vera. Di caffè. O, meglio ancora, di pistacchi e mandorle?”
Davanti agli occhi mi scorrono una carrellata di colori. E mi sembra, quasi, di avvertire i profumi. E i sapori. Non solo granite. Ma cassate, cannoli siciliani con la ricotta fresca e la granella di pistacchi… Dolci di pasta di mandorle lavorati in tutte le forme, trionfi di frutta e fruttini soprattutto, le, famose, minne delle monache…
Che ci volete fare? È estate. Fa caldo. E mi sento pigro. Indolente. Poca voglia di fare. E, forse, ancor meno di pensare…
La stagione non invoglia al pensiero. I concetti, ardui, che si concatenano con rigore, che si affinano e affilano come rasoi, che spaccano il capello in quattro, otto o più… richiedono altri climi. Più freschi. Meglio ancora, freddi.
Per carità… nessuna intenzione di ricadere nella banalità secondo la quale i pensatori e i filosofi vengono dal Nord. E gli artisti, i sognatori dai mari caldi, dal Mediterraneo soprattutto. Platone e Aristotele erano attici. E in Attica fa da sempre un caldo infernale. Non parliamo, poi, di Aristippo di Cirene. O di Pitagora di Crotone….
E, per altro, senza dilungarmi troppo, pensiamo a Byron o a Strindberg, a Woodworth e Füssli… che proprio mediterranei non erano…Ma quanto a fantasia…
Comunque l’estate non è la stagione migliore per pensare. L’esplosione della luce e dei colori, il trionfo della vegetazione, gli odori ci attirano verso l’esterno. Ci portano su un altro piano. Fatto di sensazioni, percezioni. Immagini. Rudolf Steiner lo ha spiegato con poetica lucidità nella sua opera sulle quattro stagioni dell’anno. Più volte.
Lo schiudersi alle sensazioni diventa, in questi giorni pigri, anche evocare i piaceri che provengono dai sensi. Che sono, tutti, strumenti di conoscenza. Ancorché non intellettuale.
E allora mi lascio andare a immagini di… dolci. Paste, torte, creme… Sensazioni visive. E memorie del gusto e dell’olfatto.
Vienna. Le grandi pasticcerie con torte cremose rutilanti di colori esposte sui banconi. Su tutte la leggendaria Sacher, che solo lì puoi gustare appieno. Forse per un segreto trasmesso da lungo tempo da un maestro pasticcere all’altro. Il segreto della glassa al cioccolato. Della farcitura con marmellata di albicocche… della fragranza del pan di Spagna… O forse perché la Sacher, servita con panna fresca o zabaione caldo, è Vienna. È il Ring e i palazzi imperiali. I giardini del Prater e la musica delle orchestrine di Grinzing…emozioni, e ricordi che non possono venire separati…
E le pasticcerie, meglio ancora i vecchi forni che si affacciavano su quel labirinto di calli e sottoportici che è Venezia. La Venezia popolare, quella meno frequentata e corrotta dal turismo di massa. Il profumo di biscotti secchi, i baicoli, ottimi, come diceva il motto pubblicitario, “nella cicara e nel goto”. Con il caffè e col vino. E altri dolci per lo più senza lievito, segno tangibile della lunga presenza ebraica. Col lievito, invece, la fugazza, il dolce della Pasqua e delle feste… Una cupola dorata, coperta di granella di zucchero, che altrove viene, appunto chiamata “veneziana”. E, in stagione di Carnoval, fritoe e galani. E creme fritte. Perché in Laguna il dolce è, soprattutto, frittura. E il colore prevalente è l’oro. Quasi a richiamare i mosaici di San Marco e la tradizione bizantina…
E Napoli, poi. I Quartieri Spagnoli ancora sospesi in un caotico groviglio di secoli, tanto che pare di veder aggirarsi per quei vicoli un estatico Cervantes. La mano posata orgogliosa sull’elsa della spada. Il passo arrogante da hidalgo. Ma lo sguardo sognante di fronte a quella che descrive come la più bella città dell’impero.
La pasticceria napoletana. Le sfogliatelle calde. I babà che trasudano l’aroma zuccherino del rum. Gli struffoli, intrisi di miele, dolce antichissimo che, forse, già veniva assaporato ai tempi in cui Virgilio frequentava le scuole Epicuree della città…
L’arte dolciaria è sempre stata simbolo di opulenza. E di eleganza. Di creatività, anche. I grandi maestri pasticceri del Rinascimento, che costruivano incredibili architetture di zucchero e marzapane. Opere effimere, ma che rivaleggiavano sulle mense dei Medici e degli Sforza con le opere in marmo e pietra dei grandi architetti. Di Brunelleschi, Alberti… Di Palladio. E, poi, del Sansovino e ancora del Vanvitelli…
D’altronde nel dolce – oggi demonizzato da dietologi e salutisti – sembra quasi celarsi una misteriosa chiave. Una chiave capace di schiudere i cancelli del Paradiso. Che, poi, è da sempre immaginato come uno splendido giardino. Ove esseri angelici dalle fattezze di fanciulle incantevoli – le Fravashi persiane, le Uri del Corano… – offrono ai beati frutti dolcissimi, datteri ed altro. A fugare dalla bocca il ricordo del sapore amaro della vita…
Le granite dai molti gusti di Sicilia. I dolci di martorana. Le creme di pistacchio e mandorle. I colori della pasticceria siciliana, da cui ha preso spunto questa mia divagazione. Echi, in questo pomeriggio estivo e noioso… echi di sapori, profumi di zagare… Un modo di abbandonarsi al fantasticare. Di sentire, nella brezza calda, una sorta di aura di quello che il Foscolo chiama i Beati Elisi. E di dimenticare, per un attimo, l’amaro del presente.
1 commento
Mi colpisce l attacco, perché mi riporta a qualcosa che ho scritto ad uno -sconosciuto amico- qualche giorno fa, in un messaggio rapido,di cui ora non ricordo quasi nulla tranne quel TUPPO. Già,ma,a dirla tutta,l amico non si è visto recapitare quella parola tra le altre. Perché essa è rimasta nella mia mente,mentre ho preferito tradurla in un Francese (lingua tra l altro che amo ancora moltissimo e che fino all’ iscrizione all università conoscevo profondamente, sebbene mi mancasse solo quella fase di parlato quotidiano per possederla..),CHIGNON,che però è ben lontano dal concetto che volevo esprimere. Chignon ha quasi un’eleganza affettata,quella che io detesto, quella di un’estetica dettata da certe regole,da certe mode,o di chi ama darsi un tono,con un francesismo di classe. Avrei voluto dire TUPPO,esatta descrizione dei capelli raccolti di Marie Curie e Maria Montessori, sempre uguali in quelle foto che ci restano, oltre certe etichette,donne non appartenenti ad un tempo, avanti nella loro epoca così come in questa nostra.
Credevo che si trattasse di una parola del mio dialetto,imparata da mia nonna che lo ha portato tutta la vita,quel tuppo, senza parrucchieri,senza colori, senza paure(il vero green,non quello oggi tanto osannato e pubblicizzato, che porta una come me, da sempre “parsimoniosa” nell economia e rispettosa,quanto possibile,a divenire reazionaria anche in questo senso).
Non è una parola solo del dialetto, dunque,ma ,anche se lo fosse,ora mi sono ricordata della potenza dell’ idioma, di ciò che è andato perduto,di un’ altra piccola pietra che costituiva una montagna e che abbiamo,poco a poco, ridotto, ricchezza svenduta al progresso .
L amaro che ci tocca ormai gustare(o forse sempre ci toccò,sempre quello volemmo per fingerci vivi, ), è quell Amaro Miele, ossimoro perfettamente evocativo,scelto proprio da un noto siciliano,per un suo scritto, Gesualdo Bufalino.