Ve lo ricordate il Dottor Dolittle? Non sto pensando tanto alla versione ultima, fine anni ’90, con uno scoppiettante Eddie Murphy, quanto a quella originaria della Disney. Del lontano 1967, con un favoloso Rex Harrison, il più grande interprete delle versioni cinematografiche delle pochade. E un attore brillante di classe impareggiabile…
Era un musical, quel “Favoloso Dottor Dolittle”. Un musical straordinariamente doppiato in italiano anche nelle parti cantate. E la voce di Harrison era quella, indimenticabile, di Nando Gazzolo.
Parlare con gli animali… questo il ritornello che risuonava per tutto il film. Parlare e, soprattutto, comprendere la lingua – o le lingue, visto che il Dolittle disneyano è un poliglotta – degli animali. Perché parlar loro è facile, abbastanza comune, se si ha confidenza. Qualsiasi gattara lo sta lì a dimostrare. Ma capire ciò che ci dicono… beh, è tutt’altra cosa.
Oh, certo… i miei due gatti, Birbo e Kira, su certe cose sono bravissimi a farsi capire. Quando hanno fame, ad esempio… ed io, in tutt’altre faccende affacendato (per dirla col Giusti) mi sono scordato di riempire le loro, capaci, ciotole… Kira miagola disperatamente, andando avanti e indietro da me alla ciotola. Birbo, vecchio gatto da battaglia, mi si piazza davanti. E mi fissa con aria di rimprovero, sino a che non mi decido ad ottemperare ai miei obblighi di loro servitore e domestico. Quindi, potrei dire che mi parlano. E che io li comprendo.
In realtà, però, la sensazione è che loro comunichino con me come se fossi una intelligenza inferiore. O gravemente in ritardo. E si comportino come certi esploratori di vecchie, e politicamente scorrette, barzellette. Che parlano coi selvaggi, usando quasi solo gestualità. E monosillabi.
Gli animali, invece, parlano un linguaggio molto più complesso ed articolato. Non necessariamente verbale, come ha dimostrato Konrad Lorenz. E il non comprenderlo dipende da un limite della nostra intelligenza. Non della loro.
Che è intelligenza diversa, certo. Non razionale, probabilmente. Ma non per questo inferiore. Anzi.
Non è un caso che, in antico, gli animali venissero considerati manifestazioni di Divinità. Non in quanto singoli, ma perché tutti legati ad un comune Spirito, se vogliamo ad una Intelligenza superiore. Il culto egizio di Bastet, la Dea Gatto, ne è solo uno degli esempi più famosi. Ma potremmo pensare a tutto il Pantheon egiziano, dove le Epifanie divine in forma animale erano una costante: Horus, il falco. Api, il bue…
Non diverso presso le genti celtiche che popolavano gran parte dell’Europa dalle Isole Britanniche al confine con le steppe russe. Cernummus appariva con corpo umano, e testa di cervo.
D’altro canto la rappresentazione degli Dei in forma umana è greca. E comincia, probabilmente, più o meno con i poemi omerici. E i Romani cominciarono ancora più tardi. Visto che, secondo la tradizione, Numa, il re che diede all’Urbe culti e riti, vietava di raffigurare gli Dei sotto forma umana. Oggetti rituali. Piante sacre. E animali, appunto. Atena /Minerva è la civetta. Giove L’Aquila. Venere la colomba…
Guardo i miei gatti. Ora dormono beati sulle due poltrone della terrazza. Il luogo più fresco della casa. Hanno mangiato, bevuto… E scelto dove riposare con infallibile intuito. Sono in perfetta armonia con l’ambiente in cui vivono. Senza traumi. Senza quelli che, gli psicologi alla moda, chiamano gli “irrisolti”. Senza paura del futuro. Capaci di vivere attimo per attimo.
Voi avete capito tutto di Faust, vero?
Pronuncio la domanda ad alta voce. Per gioco. Per sentirmi un mezzo dottor Dolittle.
E Birbo, sdraiato con la pancia in aria, apre un occhio. E mi guarda con aria sorniona. Sembra addirittura sorridere…poi…
“Certo… Anche Faust, sai, aveva un gatto…”
Forse devo andare da un medico. Uno bravo… perché giuro che lo ha detto davvero…