Due mondi che non si incontrano più. Domanda e offerta di lavoro sono diventate realtà inconciliabili. Ad ogni rilevazione dell’andamento dell’occupazione in qualsiasi settore, a qualsiasi livello, emerge il ritornello: “Non si trova manodopera”. Si è iniziato con camerieri e cuochi, la cui mancanza penalizza il turismo estivo; si è proseguito con i lavoratori dell’edilizia, per la grande ripresa trainata dal superbonus; si è arrivati ora a lamentare la mancanza di manager e direttori aziendali.
E se all’inizio la colpa della situazione è stata scaricata sul reddito di cittadinanza, diventa ora difficile sostenere che mancano i dirigenti industriali perché preferiscono stare sul divano ad aspettare il sussidio pubblico. Sarebbe, più comodo, indubbiamente. Perché basterebbe eliminare il mantenimento per i renitenti alla vanga e tutto sarebbe risolto.
Invece il problema è evidentemente strutturale. Da un lato la sopravvalutazione di se stessi, che si scontra con la sottovalutazione da parte del donatore di lavoro refrattario a donare anche la giusta mercede. Cuochi improvvisati si sentono chef stellati, portatori di piatti si considerano maître di sala, degustatori di tavernello si presentano come sommelier. Mentre, sul fronte opposto, si ritiene corretto pagare poche centinaia di euro al mese chi deve lavorare 7 giorni su 7 sia per il pranzo che per la cena. Tanto ci sono i mesi di bassa stagione per riposare.
E questo è un altro punto di disaccordo. Il turismo italiano, al di là delle città d’arte e territori limitrofi, è attivo per pochi mesi all’anno. Dunque non può tenere il personale per i lunghi periodi di chiusura. Quel personale che, invece, ha la cattiva abitudine di mangiare e pagare un affitto o un mutuo per tutti i 12 mesi. Dunque non è più particolarmente attratto da occupazioni precarie, saltuarie. Chiedere agli operatori del settore di prolungare il periodo di apertura pare una bestemmia: le località turistiche di mare e montagna si impegnano nelle colate di cemento, non in una proposta di turismo intelligente che vada a coprire l’autunno o la primavera.
Non è però solo un problema turistico. Il precariato, le assunzioni a tempo determinato sono ormai una costante in ogni ambito. E rappresentano il maggior disincentivo ad accettare le proposte di lavoro. Una famiglia ha bisogno di certezze, di garanzie. Non di “varie ed eventuali”. Ha bisogno di sapere quanti soldi arrivano a fine mese. Di sapere se il mese successivo ci sarà ancora un lavoro. Oppure, come nel caso dei dirigenti, l’incertezza e la precarietà devono essere monetizzati. Ti pago di più perché posso licenziarti quando voglio.
Invece l’Italia sceglie di pagare poco, sempre meno. Unico Paese europeo ad aver diminuito le retribuzioni dal 1990 ad oggi. Con queste premesse è inevitabile la fuga dei cervelli; è inevitabile il rifiuto di lavori scomodi; è inevitabile persino il rifiuto di corsi di aggiornamento e di formazione: perché studiare, perché impegnarsi a studiare se devo cambiare mestiere ogni due mesi e poi restare a casa in attesa di una chiamata che magari non arriva?
Eppure, in parlamento, si preferisce discutere di come tagliare i servizi per gli italiani, utilizzando i soldi per le armi da spedire a Kiev che se le rivende. Si preferisce discutere di quali servizi in più regalare ai clandestini. Si preferisce discutere delle risorse a fondo perduto da regalare alle imprese che delocalizzano. Tanto, in parlamento, nessuno ha il problema di arrivare a fine mese. Tutt’al più a fine legislatura..