Dostoevskij non amava Cavour. Lo ho scoperto per caso, leggendo un breve brano del grande russo. Che rimpiangeva come l’Italia – per lui centro di una cultura universale, la Magna Grecia, Roma, il Medioevo cristiano, il Rinascimento – fosse stata ridotta, con l’unità politica, ad uno staterello di nessuna importanza. Ad una semplice pedina, nel grande gioco delle potenze.
E di questo, tra le righe, incolpava il Cavour. Giudizio, forse, ingiusto nei confronti di quel “grande tessitore” che seppe fare di un mosaico frammentato uno stato, ancorché fragile e pieno di contraddizioni. Cogliendo una serie di occasioni probabilmente irripetibili. E sfruttando, talvolta con gelido cinisno, personalità che sembravano aver poco o nulla in comune. Vittorio Emanuele di Savoia, Garibaldi, Mazzini… nessuno di questi avrebbe “fatto l’Italia” se non ci fosse stato lui. Il Camillo Benso, seduto nel suo studiolo a Torino, fumando sigari come un maledetto. E divorando gianduiotti, dei quali era ghiotto. Due delle sue grandi passioni. La terza… erano le ballerine del teatro di Torino.
A me, il Conte, è sempre sembrato il modello del perfetto politico. Capace di ben servire il suo paese. Poi, naturalmente, potremmo discutere a lungo, e invano, se il suo paese, quello che serviva (e servì molto bene) fosse l’Italia nel suo complesso o, più semplicemente, il Regno di Sardegna. Che sarebbe come discutere se l’unità nazionale davvero era una necessità politica ed economica, oppure se è stato semplicemente un processo di conquista da parte del Piemonte sabaudo. Fortemente voluta da quella borghesia lombarda che necessitava di un mercato interno più ampio. E che non lo aveva trovato nell’Impero asburgico per la miopa di Vienna.
Cavour interpretò bene il suo tempo. E, certo, non ha il fascino di altri personaggi storici. Non è un guerriero. Non è un eroe o un poeta. Un ministro… una sorta di mandarino in versione occidentale. Forse per questo piacque a dei giovani letterati cinesi suoi contemporanei, Che sognavano, e pensavano, una Cina nazione moderna. Nella loro cultura un abile Ministro era sicuramente figura più importante, e degna di ammirazione, di un conquistatore. La lezione di Confucio non era stata vana.
Sun Yat-sen si formò, per altro, alla scuola di quei giovani letterati…
Ma la visione di Dostoevskij è diversa. Non guarda alla contingenza storica, che Cavour seppe interpretare. Bensì al destino e alla missione spirituale dei popoli. Dell’Italia, in questo caso, che gi appare vocata ad essere non un piccolo regno, ma il centro di una cultura universale.
Le due cose, l’unità nazionale e lo spirito universale, erano davvero in contrasto?
Se leggiamo Mazzini, il nemico e sodale di Cavour, non ci appare questo. E lo stesso se guardiamo ad altre figure della cultura e della storia italiana. Carducci, il Pascoli dei poemi, soprattutto D’Annunzio… e tanti altri, che cercarono di coniugare l’idea di Nazione con quella dell’Italia come permotore di una “missione universale”. E quindi erede del retaggio del Rinascimento, della Cristianità. Dello spirito di Grecia e Roma.
Pensavano che solo un’Italia unità e forte avrebbe, nel tempo, potuto preservare quello “Spirito universale”, senza ridursi a mero terreno di conquista, e colonia, per potenze che erano, e sono, portatrici di ben altri impulsi. Internazionalismo, globalizzazione, subculture mondialiste… determinate, solo, da una visione economicista dell’uomo e della società…
Ci provarono. Anche alcuni, non molti, uomini politici. Ed è andata come è andata. Recriminare ha poco senso. Anche perché, oggi, l’Italia è davvero quel paesucolo senza importanza, quella nave senza nocchiero in gran tempesta, quella non donna di province ma bordello (per rubare a Dante, altro “veggente”) che Dostoevskij pre-vedeva.
Il grande scrittore russo aveva una visione tragica della storia umana. E nella tragedia vi è sempre una qualche grandezza.
Purtroppo vedeva, e temeva, che la creazione del Conte di Cavour diventasse… una brutta parodia…