Cari electomagici, l’ultima volta che ci siamo visti, neanche a farlo apposta, si parlava di razzismo. Uno non fa in tempo a dire che, in materia, esistono due pesi e due misure, che un brasiliano di colore della Juventus si mette a sputare come un geco in faccia ad un giocatore avversario, dalle evidenti caratteristiche caucasiche.
L’episodio, ovviamente, non ha proprio nulla di razzista: immagino che quei gentiluomini in braghette, mentre si pestano virilmente sul campo da football, si scambino apprezzamenti di ogni tipo sulle rispettive madri, sorelle, religioni, pigmenti ed albero genealogico, tanto che, qualche volta, uno più fesso degli altri o più nervosetto, reagisce in maniera, diciamo così, poco ortodossa.
D’altronde, il football non è precisamente il cricket, con quel che ne consegue. Ma, allora, direte: se il razzismo stavolta non c’entra, perché mai lo tiri in ballo, o grullo?
Perché il fattore razzista o, meglio, antiantirazzista, consiste proprio nel fatto che, per fortuna, a nessuno sia venuto in mente che la scatarrata di Douglas Costa sia stato un atto di razzismo contro l’odiato viso pallido: anzi, le uniche volte che la parola razzismo è stata, un po’ di sguincio, suggerita, sono state quelle in cui qualche pruriginoso cronista si è affannato a giurare e spergiurare che si trattava di semplice maleducazione, neutra e banalissima.
Da una parte, mi piacerebbe poter dire: oh, finalmente l’hanno capita! Insomma, un coglione è un coglione, per dirla in chiaro latino: un vero arazzista (ovvero uno cui delle razze nulla frega, non uno che ha fatto della lotta al razzismo il proprio credo) stigmatizza e applaude qualunque boiata e qualunque bel gesto, indipendentemente dal dna dell’autore.
Solo che non lo posso dire: magari lo potessi! Perché sono matematicamente certo del fatto che, a ruoli invertiti, ossia con il bianco che sputazza sulla faccia del nero, i pacati commenti, le critiche sussiegose, i distinguo e il giustificazionismo calciarolo di quelli che dicono “so’ ragazzi!”, avrebbero lasciato il posto alla solita canea, eterodiretta dalle esilaranti vestali della correttezza politica: quelli delle uova razziste che avevano accecato la brillante discobola afroitaliana.
Salvo essere state lanciate dal figlio di uno del PD: il che ha avuto sulla prognosi della promettente (e non mantenente, ahimè) atleta un effetto che nemmeno l’acqua di Lourdes.
L’esecrabile scaracchio si sarebbe trasformato nella madre di tutti gli abominii: probabilmente, qualcuno avrebbe postulato un ph talmente acido nella saliva dello xenofobo da danneggiare in modo permanente il delicato profilo del calciatore brasileiro.
E giù dibattiti, allarmi razzisti, ispettori dell’Onu, Boldrini & Kyenge, speciali di Mentana e incetta di mentine, per cercare di mandar giù l’intollerabile vulnus alla democrazia: postulo addirittura un intervento di Mattarella, che, dal suo sarcofago, avrebbe ammonito a non abbassare la guardia di fronte al pericolo di un olocausto calcistico.
Invece, grazie al cielo, nulla di tutto questo: lo sputo, alla moviola, è risultato essere stato proiettato nella direzione giusta, la qual cosa ha reso tutti più sensati e ragionevoli, di fronte ad un gesto squallido e vile, ma pur sempre relegato nell’ambito della miseria calcistica.
Ma l’abbiamo scampata bella: la minaccia è dietro l’angolo. Ci sono milioni di praticanti, migliaia di campetti, decine di campionati, coppe, tornei, in cui calciatori di diverso colore si fronteggiano, fra sudore, pernacchie, gomitate e, purtroppo, anche qualche sputazza: volete che, prima o poi, non ci scappi il disastrino? Che non ci sia qualche ciccata che prenda la via sbagliata?
Preparatevi, perché siamo solo agli inizi della stagione: gli anchormen scalpitano e le salive ribollono. L’antirazzismo non ha fretta: sta lì, aspettando il momento buono per azzannarti. Dritto in mezzo ai pantaloni.