Da un po’ di tempo, mi frullano in testa due immagini. Immagini di due quadri. Che raffigurano il mito di Narciso…
Sì direttore, lo so, ne ho già parlato abbastanza. Ma vedete, intanto è un mito fondamentale, che spiega tante cose. E su molte di più induce a riflettere.
E, poi, è un mito che presenta tante, tantissime, declinazioni artistiche. E l’arte permette di meglio comprenderlo. Nelle sue, quasi innumerevoli, metamorfosi.
Infine, in questo momento è, per me, la chiave per comprendere tante cose. Della vita e delle persone. E anche di ciò, e soprattutto su chi conta veramente.
Insomma… fatti miei.
Ma torniamo ai quadri. Dicevo che Narciso è stato declinato in modi diversissimi da artisti di epoche diverse. Caravaggio, Poussin, Turner…
Ma i due che mi restano in mente, che vi frullano, che,in certo qual modo mi tormentano, sono Waterhouse e Salvador Dalì. E non credo che sarebbe possibile trovare due opere, due stili, due modi di pensare il mito, più lontani fra loro.
Waterhouse dipinge Eco, la ninfa, appoggiata ad un salice. Pianta simbolica, del dolore per l’amore rifiutato. O meglio, per l’incapacità di amare di Narciso.
Eco è bella. Di quella bellezza ineffabile e sensuale che fonde il fascino misterioso delle Donne preraffaellite, con le forme plastiche, e morbide, di un neoclassicismo impregnato di rinascimento italiano… Waterhouse, appunto.
Ed Eco ha i capelli oro ramati raccolti, la tunica duscinta. Un seno nudo, candido e perfetto. Il suo sguardo è fisso, disperato, sull’altra sponda del piccolo stagno. Una sponda, questa, di pietra grigia. Di, dura e arida, arenaria.
Lì vi è Narciso. Chino, anzi sdraiato, a contemplare la propria immagine riflessa. Il volto è visibile solo nel riflesso acqueo, bello, stupendo… ma non limpido. Anzi le acque lo rendono torbido. Confuso.
Il corpo, invece, è in una posizione scomposta. Forse geometrica. E la mano destra sembra voler affondare nello stagno. Ad afferrare il riflesso.
Dalì fissa la sua attenzione sul momento della metamorfosi di Narciso in fiore. Usa, come Waterhouse, la traccia poetica di Ovidio. Ma non gli interessa la storia, l’amore infelice di Eco… solo l’attimo in cui Narciso si trasforma.
Ed è ricerca ardua. Fermare un’immagine di ciò che subisce metamorfosi, è aporia logica. Impossibile, a tutta prima.
Ma come Balla riuscì a fissare il movimento frenetico del ciclista, Dalì riesce a rappresentare il tormento, e il travaglio della metamorfosi.
Il corpo di Narciso, sulla sinistra, è materico, roccioso. Dai colori cupi, ma avvolto in una luminescenza calda. Come una fiamma sottile. È chino, in posizione fetale.
Si riflette nell’acqua. Dove la metamorfosi ha inizio.
Sulla destra spunta una mano. Simbolo di morte. O, secondo altre interpretazioni, di autoerotismo. Che, poi, in qualche misura sono la stessa cosa. La mano – e i colori sono oscuri, come se venisse dal ventre, buio, della terra – regge un uovo. Esattamente corrispondente al Narciso-feto.
Citazione orfica. L’uovo deposto dalla Notte, dal quale, pronubo Eros, è stato generato il Cosmo.
E infatti dall’uovo che si schiude sboccia il fiore del Narciso.
Sullo sfondo una statua in stile greco. Posta al centro di una scacchiera.
E più in basso, uno sciacallo che divora un cadavere.
Il simbolismo si addensa. Ma non sono citazioni. Piuttosto la descrizione di un processo ermetico in fieri. La dissoluzione del cadavere. E l’uomo che si fa Dio. O meglio, la complessa partita, enigmatica per giungere alla apoteosi. A divinzzarsi…
Il tutto colto nel suo divenire. Nel suo farsi. Con la tecnica di visione critico-paranoica, che Dalì utilizza per la prima volta proprio in questa opera.
Guardare un oggetto. E vederne un altro. Completamente diverso. E tuttavia uguale al primo nella substantia profonda.
Due quadri, dicevo.
Due (piccole) ossessioni di questi giorni.
Diversi, diversissimi… eppure uguali.
Forse sto diventando paranoico anch’io…