Ha scalato ogni classifica negli ultimi giorni: la competenza. Messa in prima piano nell’ultimo intervento di Mario Draghi, ha trovato subito eco nei commenti di molti e nei discorsi politici di entrambi gli schieramenti. Ma la competenza resta qualcosa di poco noto e comprensibile ai più.
Termine che proviene dal latino, dal verbo “competère”, indica l’idoneità a trattare, giudicare o risolvere le questioni: solitamente è molto usato in ambito giuridico-processuale, intendendosi l’autorità a emettere sentenze o a trattare un determinato caso; ma trova applicazione anche nella Pubblica Amministrazione, dove sta ad indicare il complesso delle attribuzioni di poteri e funzioni degli organi e delle persone giuridiche riconosciuti, ripartite per materia, per grado o per territorio; in questo ambito, si considera illegittimo un atto emesso da un organo incompetente, che è una delle cause tradizionali di invalidazione di un provvedimento; un’altra accezione del vocabolo riguarda la capacità, per cultura o esperienza, di parlare, discutere, esprimere opinioni/giudizi su un argomento di pubblico interesse; esiste poi la definizione internazionale inerente l’insieme delle “competence” linguistiche del parlante; e c’è anche il senso economico della competenza, ossia il “quanto spetta” per una prestazione (compenso/onorario), che in materia finanziaria sta a indicare le spese/entrate che appartengono a un dato periodo/esercizio, per cui ad esempio il bilancio dello stato di solito si redige con il criterio della competenza.
Se consideriamo il significato più proprio della competenza, ossia il bagaglio di nozioni e studi che qualificano una persona ad ambire ad un determinato incarico, ecco che il riferimento universale diventa l’istruzione di qualità, ossia quella universitaria. Molti ragazzi affrontano corsi di laurea, post-universitari e master, oppure si iscrivono ai più prestigiosi collegi e politecnici, proprio per conseguire quella preparazione tecnica-culturale che dovrebbe aprire loro le porte di un buon futuro professionale. E così ogni anno vengono redatte diverse classifiche mondiali degli atenei e college più apprezzati al mondo per la qualità dei loro corsi e docenti.
Essenzialmente, le graduatorie più importanti, sia per gli addetti ai lavori per gli studenti, sono tre: l’ARWU di Shangai, che colloca ai primi dieci posti nell’ordine le università di Harvard, Stanford, MIT di Boston, UCLA Berkeley, Cambridge, Princeton, Columbia, Chicago, Oxford, Yale, cui segue una serie di altri prestigiosi atenei americani e britannici, giapponesi, francesi e nord-europei e persino l’università statale di Mosca, ma nelle prime cento non vi è alcuna italiana; va un po’ meglio con la classifica della QS World University Ranking, che invece mette in cima i più famosi college inglesi di Cambridg e Oxford, insieme alle tradizionali istituzioni statunitensi di Harvard, Berkeley, Stanford e MIT, poi seguite dalla ENT di Zurigo, dalla London School of Economics, e dalla Yale University, citando la Scuola Superiore Normale di Pisa e l’antica Università di Bologna per gli studi classici, la Bocconi di Milano per i corsi di business management e il Politecnico meneghino, che si piazza al 7° posto in Architettura e Ingegneria; infine, la lista Times Higher Education di Londra che di nuovo include Oxford, Cambridge, UCLA IT, Stanford, MIT Boston, Princeton, Harvard, Yale e Chicago, quindi l’Imperial College di Lindra, la John Hopkins University, Berkeley, ENT Zurich, la Columbia University di New York, e le università di Toronto, Cornell e Duke, seguite da altri atenei inglesi, cinesi, ma anche qui nessuna italiane fra le prime cento.
L’istruzione e la formazione professionale sono elementi essenziali a definire la competenza di una persona, infatti fanno parte del “secondo dominio” dell’indagine sul Benessere Equo e Solidale (BES), ossia l’insieme dei principali fenomeni economici, sociali e ambientali che caratterizzano il nostro paese. Dal rapporto ISTAT del 2019 si evince che l’indice nazionale è in tendenza positiva al 61,7%, fra i 25 e i 64enni che siano almeno diplomati, crescente del +0,8%, così com’è in aumento del +0,9% coloro che nella fascia d’età 30-34anni sono almeno laureati (27,8%) ed è in continuo trend di crescita (+0,8%) il numero dei lavoratori aderenti alla formazione continua, ormai l’8,1%, e migliorano anche le competenze numeriche/alfabetiche degli studenti della scuola media superiore.
D’altro canto, aumentano anche i cd. “Neet” (ragazzi che non studiano e non cercano lavoro) al 23,4% (-0,7), mentre l’abbandono scolastico rimane negativo e in aumento al 14,5%, fra i 18 e i 24 anni, in confronto al dato sulla partecipazione alla scuola infanzia che ha raggiunto il 94,9% mentre il tasso di passaggio all’università è intorno al 50% e rimane molto elevata lo strato dei cd. “analfabeti”, che sono circa 1/3 della popolazione. Sul piano territoriale-geografico, prevalgono le province autonome del nord in confronto al dato pessimo nelle regioni meridionali, che nell’insieme rendono impietoso il confronto con l’Europa: sia l’abbandono precoce (quart’ultimo posto, media europea al 10,6%), sia il numero di laureati (penultimo posto, davanti solo alla Romania) che per quello dei diplomati (quart’ultima e ampiamente sotto la media UE28 del 78,1%), mentre per la formazione continua siamo al 18° posto (media comunitaria dell’11,1%).
Questi dati fanno meditare, perché le aziende sono fatte di uomini, che devono avere competenze per poter competere sul mercato e creare, quindi, nuova economia, ossia nuovi posti di lavoro o nuove professioni o nuove competenze. Già, ma quali? La tendenza generale sembra essere quella della specializzazione tecnico-scientifica o dell’adattabilità ai sistemi computerizzati/automatici dei processi produttivi più innovativi. Ma servono anche maggiori competenze sociologiche, mediche, comunicative e operative.
Così il discorso di Draghi, che criticava l’abuso del governo italiano di sussidi a pioggia, che se sono utili per sopravvivere però non incidono sui meccanismi per ripartire: servono invece qualificazione professionale e nuove competenze, ed eventualmente nuove imprese capaci di garantire un futuro su nuovi orizzonti, nuove tecnologie, nuovi prodotti o nuovi processi produttivi evoluti. Essendo stato un eminente banchiere pubblico, sa benissimo cosa serva oggi per rilanciare l’economia nazionale e impiegare in modo efficace le ingenti risorse finanziarie che l’UE promette di mettere in campo nei prossimi anni. Di fronte al piano di sviluppo della Commissione UE, che spingerà molto sulle competenze e sulla svolta tecnologica del continente, soprattutto nel settore green, lo stato italiano che sta facendo?
A giudicare da alcuni frangenti recenti, l’incompetenza domina sovrana all’interno del Governo attuale: non si vede infatti l’idoneità a gestire o risolvere le questioni nazionali, anzi; tantomeno si può apprezzarne l’autorità a trattare determinati casi tecnici; non parliamo poi del campo delle attribuzioni dei poteri e funzioni degli organi costituzionali o della legittimità degli atti governativi; tantomeno emerge la capacità, culturale o di esperienza, nel parlare ed esprimere opinioni sui temi di pubblico interesse; le gaffe sulle “competence” linguistiche/geografiche dei membri del governo sono all’ordine del giorno; infine, c’è molta confusione di idee sulla competenza delle entrate finanziarie del bilancio statale, che si vorrebbe far credere saranno disponibili prima del previsto.
In definitiva, l’Italia sembra abbastanza in difficoltà sia sul terreno delle competenze, sia quindi sulla reale capacità di competere nel mondo o anche solo all’interno del mercato unico europeo. Il procedere a vista, la farraginosità delle procedure amministrative, leggi incomprensibili o persino inapplicabili, limitazioni crescenti alla libera attività economica e le ultime trovate in materia di organizzazione dell’attività scolastica lasciano presagire il declino prossimo, lento e inesorabile.