“Non ci sono più i giocatori-bandiera”. È un po’ come “non ci sono più le mezze stagioni”. Però le bandiere esistono ancora. Alcune. A dimostrazione dell’abissale differenza tra una bandiera “vera” ed un marchio ideato da esperti di marketing per vendere un prodotto che, in questo caso, è un territorio ma potrebbe benissimo essere un barattolo di pomodori o una farina da polenta istantanea.
Vedi il Leone garrire sulla Laguna e “senti” la grandezza di Venezia, di un popolo che non era quello delle botteghe per turisti. Vedi, dalla parte opposta, un altro Leone e ti immedesimi in un popolo valdostano che difendeva la sua libertà tra le montagne e non i suoi guadagni legati al Casino. I 4 mori che sventolano su un mare limpido e sui nuraghi immersi in una natura selvaggia ti raccontano la fierezza dei sardi. Le aquile di Trento e Bolzano ti riportano ad un passato glorioso. Idem per l’aquila del principato di Aquileia del Friuli Venezia Giulia. Risale al XIII secolo la bandiera siciliana, a ricordo di una storia che è plurimillenaria.
Poi ci sono i casi storico/umani come quelli che hanno portato allo stemma della Campania. Doveva essere un omaggio alla Repubblica marinara di Amalfi, ma nessuno si è degnato di guardare la bandiera della Marina militare che lo riporta correttamente. E ci si è ritrovati con lo stemma della città di Amalfi post Repubblica marinara. Mica si poteva smentire il funzionario. Ed è comunque un vessillo storico come, in fondo, anche quello molisano sotto il dominio spagnolo.
Altre Regioni hanno optato per il marketing, ignorando ogni tradizione, ogni gloria del passato. Non una bandiera ma una sorta di dépliant turistico. Per spiegare che in Liguria c’è il mare ed anche la montagna, che in Abruzzo a mare e monti si aggiunge la collina, che in Lucania i mari sono due, che in Puglia era passato Federico II, che in Calabria ci sono i boschi ed i siti archeologici della Magna Grecia, che in Umbria si corre la corsa dei ceri. Il Lazio ha scelto di fare una lezione di geografia per far conoscere le proprie province, la rossa Toscana non poteva rinunciare ad un simbolo resistenziale ignoto ai più.
Terribile la bandiera emiliana, probabilmente la più brutta in assoluto anche a livello internazionale, con una orrenda stlizzazione della forma della regione, senza pathos, senza creatività. Marche e Lombardia hanno scelto un simbolo legato ad antichità che hanno però scarsa capacità evocativa. Le Marche inserendo un picchio stilizzato che dovrebbe ricordare l’animale totemico dei Sabini in transito per il territorio. La Lombardia ricorrendo alla rosa camuna per ricordare uno dei primi popoli ad abitare l’area a Nord della regione.
Curiosa, e patetica, la scelta del Piemonte che ha sì ripreso il drapò sabaudo che risale al Quattrocento, ma per essere politicamente corretti lo ha annegato tra i colori dell’effimera repubblica d’Alba, ignota ai più, nata e morta dans l’espace d’un matin (due giorni, per la precisione) durante la rivoluzione francese senza lasciare tracce.
È evidente che una bandiera dovrebbe rappresentare qualcosa di più, di più profondo, rispetto ad una insegna pubblicitaria. Il legame con il proprio popolo dovrebbe essere al primo posto quando la si sceglie. Ed allora non stupisce che, in ogni manifestazione pubblica compaiano i 4 mori della Sardegna. Non stupisce che alle Olimpiadi di Torino comparisse, ufficialmente, la bandiera occitana pur in assenza di uno Stato occitano, non stupiscono le bandiere catalane. Chi assiste alla Vogalonga veneziana vedrà una sfilata di vessilli non solo con il Leone ma di numerosissime regioni/nazioni europee. Ma nessuno vedrà mai l’insegna da negozio di periferia dell’Emilia Romagna. Ed i toscani si presentano con il giglio o con i simboli delle rispettive città.
Perchè la bandiera si espone e si sventola solo se rappresenta qualcosa di vivo, di sentito, di profondo.