Chi è cresciuto tra gli anni ’90 e i primi ’00 non può non aver visto e amato le pellicole animate dello studio Pixar.
Dalla leggendaria saga di Toy Story per passare a capolavori come Alla Ricerca di Nemo, il commovente Up, Wall-E o l’esplosiva e coloratissima serie di Cars, intere generazioni hanno passato la loro infanzia e prima adolescenza rapite dalle animazioni all’avanguardia e dalle storie sentite e commoventi di un team di creativi di prim’ordine che non ha mai avuto paura di spingere i limiti di ciò che era possibile trasmettere al pubblico attraverso le sue pellicole animate.
È quindi con immenso dolore che i fan dell’iconico studio stanno assistendo, anno dopo anno, al declino creativo di una squadra di creativi brillanti che, con coraggio e visionarietà, erano andati là dove nessun’altra casa di produzione aveva osato andare prima e che adesso ritroviamo, con sgomento e una punta di orrore, a belare come tutte le altre pecore nel deprimente gregge hollywoodiano.
Andiamo con ordine.
Elemental, l’ultimo nato di casa Pixar e diretto da Peter Sohn (già padre concettuale dello sfortunato Il Viaggio di Arlo), rappresenta l’ennesima pietra miliare del declino artistico della casa d’animazione americana, cominciato già diversi anni fa con il licenziamento del geniale John Lasseter e culminato con opere di assoluta mediocrità come Red o il recentissimo Lightyear, pellicola spin-off dedicata all’iconico personaggio co-protagonista della saga di Toy Story: Buzz Lightyear.
La storia prende il via a Element City, dove versioni antropomorfizzate dei quattro elementi classici (Aria, Terra, Acqua e Fuoco) vivono in pace e armonia tra di loro. La protagonista è Ember (gioco di parole tra il nome Amber e la parola inglese per brace rovente), giovane ragazza di fuoco figlia di immigrati della Terra del Fuoco. La ragazzina finisce per innamorarsi di Wade, ragazzo d’acqua impiegato dalla città come ispettore sanitario, con cui intesse una relazione romantica, in contrasto con l’assoluto divieto imposto dalla società in cui vivono di mescolare tra di loro gli elementi finendo così per sfidare le norme della cultura in cui vivono.
Il film parte da un concept tutto sommato interessante e intrigante (e se gli elementi fossero in qualche modo “vivi”?) ma, tra i lettori e spettatori più smaliziati, qualcuno avrà già intuito che questa premessa concettuale andrà a naufragare nell’ennesima tempesta di stereotipi ideologici, critica sociale woke per radical chic da social media e triti statement politici sterili (e anche vagamente offensivi per coloro che riconosceranno i corrispettivi “reali” trasposti nel film).
Il crimine supremo, però, è l’essere un’altra storia tanto prevedibile, stereotipata, superficiale e mal costruita, dalla progressione del plot alla caratterizzazione maldestra e appena abbozzata dei personaggi protagonisti, da risultare una pugnalata al cuore di chiunque abbia avuto il piacere e il privilegio di crescere durante l’età dell’oro della Pixar.
Quindi, arrivati ai titoli di coda, non ci si ritroverà solo ad essere semplicemente annoiati, irritati e col portafogli più leggero di quanto non fosse prima, ma anche in qualche modo amareggiati. Tristi nel vedere un campione che ci ha fatto sognare compiere l’ennesima papera in campo, inconsapevole (e quasi perversamente orgoglioso) del suo declino e sordo di fronte alla folla che lo ha sostenuto e amato per decenni che ora vede solo l’ombra di ciò che un tempo fu. Girare alla larga, qui non c’è niente da vedere.