Il primo Paese latinoamericano ad andare al voto in questo 2020 segnato da rinvii continui dovuti all’emergenza legata alla pandemia provocata dal coronavirus è stato quello della Repubblica Dominicana.
Le elezioni generali che hanno riguardato sia la poltrona presidenziale che gli scranni dei due rami del Parlamento nazionale, inizialmente previste per il 17 maggio, si sono tenute ad inizio luglio generando un’alternanza dopo sedici anni di governo del Partido de la Liberación Dominicana (Partito della Liberazione Dominicana, PLD).
Il movimento socialdemocratico ha pagato la pessima gestione del contagio del Covid-19, che ha colpito quasi 40.000 dei 10 milioni di cittadini della parte orientale dell’isola di Hispaniola provocando 820 vittime, e la divisione del candidato ufficiale Gonzalo Castillo e del dissidente, e già due volte presidente dal 2000 al 2008 proprio con la formazione di centrosinistra, Leonel Fernández.
Dal proprio canto Luis Abinader sostenuto dal Partido Revolucionario Moderno (Partito Rivoluzionario Moderno, PRM) ha riscattato la sconfitta del 2016 superando il 50% dei consensi e scongiurando un ballottaggio in cui le due anime progressiste avrebbero potuto ritrovare un’unità di intenti e far convergere i voti su un unico sfidante.
Oltre ai dati sanitari il nuovo presidente dovrà guardare a quelli provenienti dall’economia per far ripartire quanto prima una nazione abituata ad avere i tassi di crescita più alti dell’intera America caraibica.
Economista, imprenditore e fondatore del PRM Abinader ha ultimato i propri studi negli Usa ed è intenzionato ad intensificare i rapporti tra la Repubblica Dominicana e il gigante nordamericano.
Agli sconfitti è spettato il compito di riconoscere i risultati definitivi forniti dalla Junta Central Electoral (Giunta Centrale Elettorale, JCE), fattore per nulla scontato in un continente in cui le divergenze tra maggioranza e opposizione stanno segnando un brusco ritorno ad episodi di guerra civile.