“Odiamoci così, senza rancor”, tanto per parafrasare Claudio Villa e il Quartetto Cetra. Affrontiamoci a muso duro, scoviamo il nemico e fronteggiamolo dialetticamente.
Un grande psichiatra, Luigi Cancrini, aveva scritto un saggio importante “Date parole al dolore” per accedere al nome di ciò che materialmente ci fa soffrire, ci crea disagio.
Intorno al ’68, il frasario era truculento: “L’unico compagno buono è quello morto” e, in sintonia, “Uccidere un fascista non è reato”. Poi, finita la rappresentazione liturgica dell’odio, tutti in osteria a passarci i compiti di scuola e a dividere gli impegni per le ricerche da fare.

Ad un certo punto, tutto finì. E finì quando la parola perse valore, quando la voce venne silenziata: dallo scontro dialettico si passò allo scontro armato; dall’urlo all’esplosione; dall’insulto e dall’arroganza alla pallottola e alla spranga. Dalle assemblee turbolente si passò all’agguato silenzioso.
Premetto questo per dire che la manfrina buonista della “Commissione contro l’odio” non solo è una ipocrita manifestazione di tolleranza tanto ridicola quanto equivoca, ma è soprattutto una pericolosa deviazione psicologica.
Amore e odio sono sinergici, complementari: quindi la soppressione dell’uno rischia fondamentalmente la scomunica dell’altro, e viceversa. Sono contrastanti, ma non antagonisti; antitetici, ma non feroci.
Eliminare l’odio dal linguaggio significa rischiare la sua espressione nell’agito. Per dirla in termini psicoanalitici, se l’odio è un pensiero, un desiderio, un sentimento inammissibile, la sua rimozione ritorna poi, nell’azione, con gesti e comportamenti reali. Come si diceva, dalla pratica delle parole alla pratica della violenza.
Questa nasce non su istigazione della parola – perché non esistono cattivi maestri, ma pessimi allievi – ma proprio dalla negazione del suo valore.

Come sottolinea in maniera esemplare Byung-Chul Han, filosofo coreano, è nella nostra “società della palliazione”, dove “l’Altro avversario è fatto sparire”, dove l’analgesia politica nega il valore dialettico del nemico, dove tutto è compiacimento e pensiero positivo, il malessere si tramuta in “dolori psicogeni, espressione di parole sepolte, rimosse. La parola si fa concreta”. Ecco i comportamenti autolesionistici – dall’anoressia alle ferite del corpo – che pretendono di esprimere ciò che a voce è impossibile esprimere.
In politica, e in generale nello scenario sociale, è terapeutico dare parole all’odio, permettere che si esprima in modo da affrontarlo in campo dialettico, fare in modo che venga in un certo modo ritualizzato secondo regole e protocolli, secondo “una politica agonistica che non scansi i confronti dolorosi”.
A parte la patetica presunzione di volere, per legge, soffocare un sentimento – ambizione già di per sé patologica – questa iniziativa ha dei risvolti particolarmente insidiosi. Scrive su “La nave che affonda” Franco Basaglia, personaggio che per altro non stimo minimamente: “La gente è costretta a sparare perché non è ascoltata, come il ‘matto’ è costretto a uccidere la moglie perché non è ascoltato”. E quando qualche folle sparerà, inseguendo quei fantasmi che la “legge Segre” pretende di esorcizzare, potrà sempre dire che lo ha fatto perché nessuno gli ha permesso di parlare, di esprimersi. Sarò io, allora, il suo perito forense di fiducia, e individuerò i mandanti del suo malessere.