Vi è un mito, una storia se preferite, che da sempre inquieta l’immaginario degli uomini. E turba i loro sogni…
Uno solo? mi si potrebbe dire.
No certo. Non uno solo. I miti sono, per loro natura, inquietanti. Turbano e tormentano le coscienze. E, ancor di più, ciò che sotto la coscienza urge. Magmatico.
Perché i miti non sono astratte allegorie. Rappresentazioni figurate di concetti. Sono…porte. Che conducono su un altrove dove la nostra ragione non può giungere. Per questo inquietano. Per questo turbano.
Freud lo intuì. Ma la sua visione era inficiata da una, totale, assenza di metafisica. Era un medico, non un filosofo. Ed era figlio del positivismo. Vedeva solo i corpi, alla fin fine. E tutto, obbligatoriamente, riconduceva a questo. A pulsioni fisiche. Che determinavano la psiche. Mentre, se si osservano i miti, è l’opposto. È il corpo, i sensi che derivano dall’anima impulsi e perversioni.
Freud aveva, però, ben avvertito il potenziale devastante del mito. E si era concentrato, soprattutto, su quello Tebano. Edipo, Gioacasta, la loro stirpe. Sventurata e maledetta.
Ma i miti inquietanti sono molti. Ben oltre quello edipico. Anche se, in apparenza, meno tragici e sanguinosi del ciclo Tebano.
La storia di Ermafrodito. Quella a cui, all’inizio, alludevo. Non è un mito tragico. E, tuttavia, è inquietante. Ermafrodito, ci racconta Ovidio, era un giovane uomo bellissimo. Di lui si innamorò una ninfa, Salmace. Che lo abbracciò così stretto da fondersi con lui. Perché mai voleva essere separata dal suo amato. E gli Dei le fecero il dono di farli diventare un essere solo. Maschio e femmina allo stesso tempo. Di una bellezza, e perfezione, inarrivabile. Come nella statua d’età ellenistica (ma la copia marmorea è romana, del II secolo d. C.) cui il Bernini aggiunse, di base e cornice, il morbido panneggio di un giaciglio. Difficile anche solo immaginare un corpo, pur visto solo di schiena, di altrettanta perfezione.
Perché in questo sta il mistero, e il fascino misterioso, di Ermafrodito. Che nulla ha a che vedere con i moderni deliri sui generi sessuali, transgender, e altre amenità di moda. Nulla, a ben vedere, con il sesso, o meglio i sessi e i loro attributi fisici. Ermafrodito non è un mostro. È una sintesi. Qualcosa che, nel mito, allude al tema, presente in tutte le culture, della caduta del genere umano da una condizione di perfezione originaria. Ne parla Platone. E lo troviamo nella Genesi. Soprattutto se letta nell’originale. In ebraico. Non corrotta e forzatamente semplificata da traduzioni e traduttori. Che, come dice l’etimo stesso, sono sempre, in fondo, dei traditori…
La bellezza di Ermafrodito è insita nel suo nome. Che è la sintesi di quelli dei suoi, divini, genitori. Hermes ed Afrodite.
Ora il legame con Afrodite è di immediata evidenza. Dea della bellezza, del piacere, della generazione e della fecondità. Lucrezio la chiama “hominum divomque voluptas”. Voluttà, piacere ineffabile degli uomini e degli Dei.
Più complesso comprendere il rapporto con Hermes. Che nelle favole tarde appare, soprattutto, come Dio dei ladri e dei commercianti, ingannatore ed astuto… Un personaggio ironico, che ritorna spesso nelle commedie. Come nell’Anfitrione di Plauto.
Ma Hermes era ben altro. Nelle iscrizioni in Lineare B micenee, viene identificato con il Caprone. Simbolo di fecondità e virilità. Tant’è che in età classica le Erme, che proteggevani i trivi – era anche il Dio dei viaggiatori – erano delle colonne, con volto barbuto e, vistosi, attributi maschili.
Principio femminile e principio virile, verrebbe da dire. La solita storia – oggi spesso citata a sproposito – dello Yin e dello Yang. Ma, in realtà, la figura di Ermafrodito presenta ben altri risvolti. Perché la madre Afrodite è una potenza indescrivibile. Nulla, senza di lei, potrebbe nascere. Nulla avere vita.
E il padre, Hermes, è Dio dei segreti. E del Logos. Protegge poeti e oratori. Ed è psicopompo. Ovvero conosce le vie segrete che conducono nell’altro mondo. E passa dalla luce alla tenebra, dai vivi ai morti, liberamente.
La nascita e la morte, dunque. Fuse insieme in un rapporto erotico che genera l’essere perfetto. Ermafrodito. Che, appunto, incarna l’uomo prima della caduta. E della divisione dei sessi. Potremmo dire che è Angelo. D’altro canto, Hermes, il padre, era, anche, il messaggero degli Dei. E messaggero, in greco, si traduce con anghelòs.
L’ inquietudine che questo mito, questa immagine trasmette sta proprio in questo. Nell’intuire che ogni nostro desiderio sessuale, l’attrazione per l’altro sesso, è solo…nostalgia. Di qualcosa, una perfezione, che, inconsciamente, sempre ricerchiamo. E che sola vanifica il dualismo morte /vita.
E questo è vero sempre. Nei grandi amori romantici cantati da Keats e Leopardi, come nelle morbose passioni di Baudelaire. Nella Donna angelicata, la Beatrice di Dante, come nel Pierino della commedia all’italiana (memoria di Alvaro Vitali) che spia, allupato, Edvige Fench sotto la doccia. È vero nella poesia d’amore ed è vero nella pornografia.
E qui sta il senso della tragedia. Nel nostro inseguire, vano, piaceri sempre più estremi, spesso degradati. Pretendendo che ciò sia…normale . Che la misura di tutte le cose debba essere solo il nostro desiderio. Il nostro inseguire un piacere, un appagamento che diviene sempre più lontano. Irraggiungibile.
Mentre è solo nostalgia. L’oscuro anelito della nostra anima ad una perfezione che estingue ogni tensione. Ogni dolore. Ogni solitudine.
Ermafrodito non è mai solo. Come, invece, sono, sempre o quasi, uomini e donne.