Negli anni settanta del secolo scorso e i due ricercatori sociali Philip Zimbardo e Craig Haney decisero di studiare cosa induce l’individuo a delinquere e la conseguente esperienza della prigione. Organizzarono questo esperimento della durata di due settimane, al quale parteciparono 24 studenti universitari. Metà ricevettero il ruolo di carceriere e l’altra metà di prigioniero. Sospesero l’esperimento dopo sei giorni a causa del suo forte impatto negativo sulla sanità fisica e mentale degli individui. Ma cosa è successo realmente durante l’esperimento di Zimbardo?

Le premesse dell’esperimento di Zimbardo
Zimbardo era un professore di psicologia all’università di Stanford. Seleziona i 24 studenti più sani e stabili mentalmente dei 75 volontari che si erano proposti per l’esperimento. Prima di cominciare con la sua ricerca sociale decide di rivolgersi a un uomo che aveva alle spalle 17 anni di carcere. A seguito di studi e interviste Zimbardo e i suoi collaboratori realizzano una prigione nel seminterrato del Dipartimento di Psicologia di Stanford.
All’interno di questa prigione era anche previsto il cosiddetto buco, una stanza molto piccola e buia, all’interno della quale vi sarebbero stati condotti i prigionieri meno obbedienti. Ogni cella era stata fornita di un citofono accompagnato da un microfono per poter sentire i discorsi dei prigionieri e fare annunci. Oltretutto, i partecipanti non potevano avere accesso a orologio ed erano privati delle finestre, in modo che essi perdessero in breve tempo la cognizione del tempo immergendosi totalmente in questa nuova realtà.
La vita dei prigionieri e dei carcerieri
Inizialmente i prigionieri vennero presi, bendati e portati al Carcere della Contea di Stanford dove si informava loro del crimine per cui erano stati arrestati. Vennero perquisiti, spogliati, rasati e cosparsi di una sostanza per prevenire batteri e malattie: una fase di umiliazione. In seguito, essi ricevettero le uniformi, ognuna associata ad un numero identificativo, un copricapo fatto di nylon, privati della biancheria intima e una pesante catena fu chiusa intorno alla caviglia di ognuno di essi.

I carcerieri furono forniti di uniforme, manganelli, fischietto e occhiali scuri specchiati, che permettevano di nascondere gli occhi, così da aumentare il disorientamento e la spersonalizzazione dei prigionieri. Non ricevettero nessun addestramento particolare, anzi furono loro a stabilire le regole della prigione. Furono previste le conte a qualsiasi ora del giorno o della notte, con le quali si rafforzava la deindividuazione e la deumanizzazione. Oppure si infliggevano punizioni, quali le flessioni forzate, tecnica adottata anche dai nazisti nei campi di concentramento.
Il prigioniero 8612
Fu la rivolta del secondo giorno a peggiorare la situazione e a rendere sempre più reale quella condizione di prigionia, inizialmente fittizia. Le guardie chiamarono rinforzi, e cominciarono a punire coloro che erano maggiormente coinvolti e premiare coloro che invece non si erano resi partecipi. Questa distinzione aggravò il clima di tensione, non solo tra guardie e prigionieri, ma tra gli stessi carcerati.

Il prigioniero 8612 fu il primo a mostrare il proprio malessere (crisi di pianto, urla) richiedendo di abbandonare l’esperimento di Zimbardo. Gli fu proposto di diventare informatore segreto, ma non parve particolarmente collaborativo e quando si ritrovò con i suoi compagni di cella espresse loro la preoccupazione rispetto a una situazione che si era ormai trasformata in realtà. Il loro ruolo di prigionieri aveva trasformato loro in veri carcerati, e lo stesso valeva per le guardie.
Zimbardo: ricercatore sociale a responsabile di prigione
Malgrado la visita di alcuni parenti e amici e la scoperta delle dure condizioni di vita in cui versavano i prigionieri, nessuno pensò di proporre la sospensione della ricerca. Così come l’intervento di un collega di Zimbardo, che gli chiese quale fosse davvero il fine di questo studio, facendogli capire che qualcosa non stava funzionando. Ma non bastò a fermare questo esperimento di cui ormai si era perso il controllo.
Il ricercatore Zimbardo stesso si era ormai calato nei panni di un responsabile di prigione. Non tenne in considerazione le gravi condizioni in cui si trovavano i partecipanti prigionieri. L’unica a esprimere esplicitamente il proprio dissenso e l’assurdità di tale studio fu la dottoranda Christina Maslach, che giocò un ruolo fondamentale per la chiusura dell’esperimento Zimbardo.
Il potere della teoria dell’etichettamento
Secondo la teoria dell’etichettamento, l’esistenza dei cosiddetti devianti è dovuta all’esistenza di una persona o di un gruppo che può essere oggetto dell’etichetta “deviante” e di un individuo o un’istituzione che può incollare questa etichetta e far sì che rimanga attaccata nel tempo.
Progetto sociologia. Guida all’immaginazione sociologica. Pearson. Jeff Manza, Richard Arum, Lynne Haney. 2018
Questo fa sì che il ruolo che si associa a qualcuno (in questo caso o di prigioniero o di guardia) porti quell’individuo a comportarsi seguendo le aspettative di quell’etichetta che gli è stata affibbiata, secondo la cosiddetta profezia che si autoavvera.
La teoria dell’etichettamento agisce in molti contesti. L’esperimento di Zimbardo ci permette di riflettere su di essa calata nella nostra quotidianità. Solo 5 dei partecipanti non si sono conformati. Questo risultato, all’apparenza assurdo, ci mostra però le dinamiche che si celano dietro a tragici avvenimenti della nostra storia. Pensiamo alla Shoah, alla schiavitù, alle crudeltà inflitte a popolazioni solo perché aventi diverse origini o determinate caratteristiche. Ma non solo, senza andare tanto lontano, possiamo rifarci a episodi di bullismo spesso narrati dalla cronaca.
L’effetto Lucifero
Attraverso questo esperimento ci rendiamo conto di quanto sia errato pensare che il male sia la conseguenza di un’inclinazione personale. Infatti, per quanto questa convinzione possa essere confortante, ognuno di noi può essere soggetto al cosiddetto effetto Lucifero. Proprio perché il condizionamento sociale ha il potere di far sì che l’individuo si comporti in modo radicalmente diverso rispetto ai suoi valori abituali.
La deindividuazione, la deumanizzazione, l’eterodirezione e l’obbedienza acritica sono gli elementi alla base di questo effetto. Infatti, la spersonalizzazione, la riduzione allo stato di oggetto o animale, o ancora la scarsa indipendenza di giudizio e l’alta tendenza al conformismo, sono tutti aspetti che alimentano il rischio di degradazione e si situano all’origine del male.
Zimbardo pubblica i suoi risultati solo 30 anni dopo a seguito delle torture e degli abusi di Abu Ghraib del 2003. Il ricercatore sociale sperava che il suo studio e i risultati ottenuti potessero fungere da punto di partenza contro le condizioni che portano i centri di detenzione e la guerra a divenire teatri dell’effetto Lucifero. Per saperne di più su questo esperimento clicca qui.