Non c’è niente da fare… aveva ragione, ancora una volta, Giorgio Gaber quando cantava “Io non mi sento italiano”. Che non è solo una canzone, bella come tutte le sue. È una fotografia di come sono gli italiani. Che, per lo più, non si sentono tali. Un tratto paradossale della nostra identità nazionale. Anche se usare il termine “nazionale” appare (quasi) ironico. E certamente anche… grottesco.
Eppure non sentirsi italiano, è proprio un carattere distintivo dell’italiano. Di quello medio e, ancora più, di quello che appartiene, o ritiene di appartenere, alle pretese élite. Una caratteristica tutta nostra. Perché non trovo niente di simile presso altri popoli. Popoli europei intendo. Quindi non… tribali. Tra i quali, però, il senso di appartenenza, di identità nazionale è tutt’altra cosa.
Prendiamo i tedeschi…. e magari un tedesco anomalo, come Brecht. Certo avverso, anche per ideologia, ad ogni forma di nazionalismo. Ferocemente critico… andate a vedervi la poesia sulla morte del fratello. Quel “il popolo nostro ha bisogno di spazio…” amaro e caustico. Eppure anche lui restava… tedesco. Nel profondo. Avrebbe voluto diversa la Germania. Ma non appartenere ad altri popoli.
Naturalmente non parlo dei francesi, sciovinisti fino al midollo. Un senso di superiorità, la famosa/famigerata grandeur, che neppure tutte le batoste che hanno subito sono riuscite a scalfire. E lasciamo stare gli inglesi, quel Proud to be English che torna fuori ad ogni piè sospinto. E che li ha fatti mollare, senza tema né rimpianti, il carrozzone della Ue..
Ma per noi italiani è diverso, vorremmo appartenere ad altri popoli. Conosco torme di anglofili, malattia pandemica tra le insegnanti di inglese ad esempio. E frotte di americanofili, soprattutto fra i giovani preda delle mode indotte mediaticamente. E, categoria speciale, fra i politici. Che hanno cercato di portare da noi addirittura la simbologia e il lessico degli amati (invidiati) Amerikani. Il Partito Democratico di Veltroni, il disastroso Elefantino di Fini, sono solo i due casi più famosi. E non parlo dei Radicali. Perché quella è storia diversa. Di dipendenza economica e di… appartenenza ad un preciso proprietario. Ogni allusione al noto filantropo Soros è voluta e niente affatto casuale.
E poi ci sono i russofili. Oggi un po’ minoritari, rispetto ai tempi in cui furoreggiava l’Internazionale e si inneggiava a Baffone. Però in occulta, silenziosa ripresa….
Perché noi italiani siamo così? Se lo chiedeva, molto tempo fa anche Antonio. Gramsci. Che notava questi odio diffuso nei ceti intellettuali soprattutto (ma non solo) per tutto ciò che definiva “nazional-popolare”. E neppure lui riusciva ad andare oltre la constatazione. Ad arrivare alla radice del problema. Che è, poi, il nostro male cronico. Che ci portiamo dietro sin dell’Unità. Se non da prima.
Perché la nostra storia “nazionale” è storia di particolarismi e identità locali. Dei quali continua, nonostante tutto, ad esser difficile fare una sintesi. Ci provò Mussolini… ma neppure lui ci riuscì. E dovette ricorrere al mito di Roma. Che è, però, mito universale. Non nazionale.
Al particolarismo locale dei popoli che compongono l’Italia – diversi per usi, tradizioni, financo cucina – è sempre, però, corrisposta l’esterofilia delle, vere o presunte, élite intellettuali. Che guardavano, e sempre più guardano oggi con sufficienza alla cultura popolare. E si sentono ora parigine, ora britanniche… ora, sempre più, Newyorkesi. Dimenticando, o, peggio, ancora ignorando, che proprio la cultura originale dei popoli dell’Italia, quella che Gramsci definisce nazionale -popolare, ha prodotto Dante e il Rinascimento, Ariosto e Michelangelo, Marino e gli splendori del Barocco….
Loro, gli intellettuali, preferiscono sentirsi altro. Chiusi nel loro, ottuso, snobismo, sognano un paese “normale”.
Ma l’Italia non è un paese normale.. basta andare a Firenze o Venezia, per capirlo.
Comunque, io non mi sento italiano, come dice Gaber. Ma… per fortuna..
Lo sono.