Io sono esule fra gli uomini… scrive Ungaretti. E, in poche parole, sintetizza una particolare condizione dello spirito. Con quella capacità di essere scabro, secco, incisivo che caratterizza la sua poesia. L’esilio è tema canonico della nostra letteratura. Della poesia in particolare. Perché tutto inizia con Dante, con quel suo “quanto sa di sale lo pane altrui / e quanto cale salire e scendere le altrui scale”.
Ma quello dell’Alighieri era un esilio fisico. Uno sradicamento. L’impossibilità di ritornare in patria. Ovvero alla terra dei suoi padri. Firenze.
Quello di cui parla Ungaretti è altro esilio. Anche perché le sue radici erano complesse. Radici da cosmopolita, per certi versi apolide. Che racconta ne “I fiumi”. Asciutta autobiografia dell’anima. Una sorta di percorso attraverso i fiumi della sua vita. Il Serchio, da dove veniva la sua famiglia di contadini, la radice più profonda, genetica. Mai dimenticata. Il Nilo, Alessandria, deve nacque e si formò. Frequentando la Baracca Rossa, la bottega da Vinattiere di Enrico Pea, ritrovo degli anarchici italiani. E sentendo il muezzin chiamare alla preghiera, il ghibli soffiare per i vicoli… L’origine della particolarissima musica interna alla sua poesia.
E poi la Senna, Parigi. La frequentazione di artisti e poeti delle avanguardie. L’amicizia con Apollinaire. Che proprio lui trovò morto di febbre spagnola nella soffitta dove viveva… E ancora l’Isonzo. La Grande Guerra. E, avrebbe poi potuto aggiungere altri luoghi. Altre terre. Altri fiumi. Il Tevere. Il Paranaíba, che lambisce Brasilia. Ove insegnò molti anni. E dove perdette il figlio Antonietto. La raccolta “Il Dolore” ne rappresenta lo struggente compianto funerario.
Comunque Ungaretti non fu mai esule da una città, da un luogo fisico. In fondo era un nomade. Un beduino del deserto. Ma si sentiva esule fra gli uomini. Estraneo, isolato. Un senso di diversità. Di non appartenenza.
Una condizione che, probabilmente, aveva ritrovato in Foscolo. Che fu esule vero, certo. Ma nel suo pensiero l’esilio diventava una condizione dell’esistenza. Per rari uomini. Poeti soprattutto.
L’esule fra gli uomini si sente estraneo. Non può condividere i luoghi comuni, soprattutto la forma mentis comune. Se vogliamo, la narrazione dominante. Nella vita sociale. E così in quella privata. Perché intuisce altro dietro alla parvenza. Al velo di illusione. Alla sabbia che normalmente gettiamo negli occhi altrui. Ed anche, però, nei nostri. Perché non possiamo sopportare di vedere ciò che veramente è dietro alle nostre azioni. Fingiamo. Senso sociale, senso di responsabilità, essere ligi alle leggi. Ci vogliamo sentire nobili e generosi. Mentre compiamo gesti dettati solo da paura e interesse. Utilizziamo parole come Amare – e Ungaretti è quanto mai sobrio, asciutto, scarno in questo – per velare ben altre pulsioni. E non faccio riferimento a quelle sessuali, che, in fondo, hanno una loro giustificazione. E celano, anche nella forma più sordida, una minima scintilla di luce. C’è di peggio, molto di peggio dietro a questa parola e ad altre, di per loro stesse belle e nobili, ma che vengono usate come schermo. Deformante.
Ungaretti era poeta grande. E poeta la cui identità, le cui radici non erano in un luogo, ma in una lingua. L’italiano, che aveva scelto come sua patria. Avrebbe potuto riferire a se stesso, ciò che Cioran scrive nella “Lettera all’amico lontano”, il filosofo Dinu Noica. “Non si abita una terra, si abita una lingua.”
Per questo Ungaretti si sentiva esule fra gli uomini. Lui che usava le parole più pesanti delle pietre. Scabre, secche, senza finzione o ipocrisie. Assolute. Poche e ferme. Non poteva riconoscersi nella lingua degli altri, viscida e biforca. Si sentiva estraneo. Esule. Ma non alieno. Perché, aggiunge, “degli uomini mi preoccupo”.