Troppo a lungo l’opera pittorica di Ettore Fico è stata ingiustamente confinata entro i limiti ristretti dell’arte regionale piemontese legata a stilemi post-casoratiani o inversamente tardo-futuristi. Un afflato anticampanilistico, vitale ed europeo travalica la sua opera fin dagli esordi pittorici da autodidatta o nell’atelier accademico del maestro Luigi Serralunga. Come un fil-rouge il percorso pittorico di Ettore Fico si snoda lungo un periodo di oltre mezzo secolo, sempre in bilico tra astrazione e figurazione, in cui i congini si fanno talvolta labili, talvolta netti, come se un timore, o un pensiero nascosto, volesse celare i reali sentimenti dell’artista al mondo, che egli rispettava, ma che, con una scettica sufficienza, a mala pena tollerava. La traiettoria estetica, percorsa dalle prime opere fino a quelle realizzate a pochi giorni prima della sua scomparsa, compongono un mosaico frammentato, estroso, che solo attraverso un esame attento e scevro da preconcetti, può restituirci appieno una precisa, anche se pur personale, visione che Fico aveva del mondo e del suo modo di interpretarlo. Attraverso un corpus assai vasto di oli, tempere, acquarelli, pastelli, incisioni e disegni, che conta alcune migliaia di opere, Ettore Fico ci parla di un mondo intimo e privato, pochissimo popolato, abitato più che da persone, dagli oggetti del suo studio, dai fiori del suo giardino, dalle modelle dell’atelier, dagli animali domestici che hanno sempre un nome – e solo per l’anagrafe italiana non hanno anche il “suo cognome” – e da impressioni coloristiche, sempre in bilico tra realt e irrealtà.
Come un reticolo di strade intersecanti, di cavalcavia, di ponti e di sottopassaggi, la sua opera intreccia relazioni tra i differenti esponenti della pittura d’avanguardia del Dopoguerra e dialoga, soprattutto in francese, con i maestri del post-cubismo e del tardo-Impressionismo. In primis l’amatissimo Braque, dallo sguardo cosi simile per temperamento a Giorgio Morandi, persi entrambi in una malinconica visione del Mondo e nella sua riproduzione pittorica, dove i bruni e i colori argillosi, sempre polverosamente intrisi di frammenti da scavo archeologico, ci restituiscono un’immagine della realtà che sta tutta racchiusa nel microcosmo domestico di un atelier, di un giardino o di una casa. E poi gli altri francesi, da Cézanne a Matisse, da Bonnard a Friesz – anche troppo abusati per descrivere l’opera di Fico – funo a Manessier, a Dufy, a Michaux e all’internazionalità di Vieira da Silva o al segno cristallino di Birolli o all’astrazione naturalistica di Morlotti. Il mondo per Ettore Fico era popolato soprattutto di silenzi fortemente intrisi di sentimenti, talvolta non espressi, in cui la semplice e innata nobiltà d’animo dell’uomo si confondeva con quella dell’artista per generare opere grandiose e potenti, talvolta aggressive, talaltra intime e al limite del misterioso, come per celare al loro interno il vero rapporto dell’uomo con il soggetto rappresentato. Ed proprio in quest’ultima ottica che molte opere prodotte durante i lunghi anni di lavoro – fin dagli anni Cinquanta per intenderci – non ebbero altri spettatori, se non Fico stesso o pochissimi casuali visitatori che, ignari del tesoro che veniva loro mostrato, non erano pronti a riconoscerlo.
Attorno al 1969 l’artista lascia la matericità per una pennellata pi fluida al limite del calligrafico. In Gomitolo, gli elementi della composizione, pur suggerendo la staticità classica della natura morta, si separano per essere semplici elementi grafici. Il gomitolo non sembra poggiare su nulla, il tavolo/bancone frammentato in sezioni separate e differenti e il fondo si rompe in triangoli chiari come fossero vetri scheggiati di una finestra.
In Rottami sulla neve, gli elementi diventano irriconoscibili; soltanto la divisione dello spazio retrostante, scomposto in due differenti cromie, ripropone l’idea fisica di piano e di fondo come in talune opere di Sutherland dello stesso periodo. La composizione geometrica sembra interessargli ora più del pathos, aggrovigliata in spire e spirali, rese da movimenti pittorici armonici e fluenti. Le grandi tempere su carta sono declinate infinite variazioni di rossi e di bruni, fino ai neri che compattano l’opera in eleganti segni rapidi e sottili. Talvolta per il piacere della pennellata e della sfumatura viene abbandonata per effetti compositivi in cui le stesure piatte di colore “verticalizzano” il dipinto astraendolo ulteriormente dalla realtà.
Verso la metà degli anni Settanta l’artista ritorna prepotentemente alle tematiche del giardino e della natura espressi in modo realistico.
Lo spazio, tutto intriso di dettagli descrittivi, si compone in sinfonie monocrome declinate sulla tonalità del verde (quando è descritto il prato del giardino), del blu (quando è l’acqua la protagonista dell’opera), del bruno (quando sono le rocce di montagna a essere il soggetto del quadro). La pittura di Fico pare scomporsi nuovamente e frammentarsi in tocchi minuti e pennellare brevi e minuscole. La natura sembra riappropriarsi di tutta la sua attenzione, pur non restando l’unico soggetto di questi anni, e invade completamente lo spazio pittorico dilatandolo spesso in composizioni di grande formato.
Le tempere ancora una volta sembrano risolvere meglio le problematiche dell’artista per rapidità di esecuzione e per semplicità di archiviazione.
Le opere accennano a descrizioni fulminee, i colori stesi a tocchi definiti per le tempere, si sfumano invece per le grandi composizioni a olio che paiono tavolozze iridescenti in cui un prisma di cristallo ha riversato le innumerevoli sfumature di colore.
Ettore Fico nasce a Piatto Biellese il 21 settembre 1917.
Dopo i primi studi di pittura con il maestro Luigi Serralunga, parte per la Seconda Guerra Mondiale e dal 1943 al 1946 è prigioniero in Algeria. Nel corso della sua lunga carriera artistica partecipa a numerose esposizioni collettive nazionali e internazionali tra cui la Quadriennale d’arte di Roma (edizioni VII, VIII e IX), la Biennale Internazionale di Cracovia nel 1966, la Mostra di Artisti Italiani a Praga nel 1968 e la XXXIX Biennale Nazionale d’Arte Città di Milano. Muore a Torino il 28 dicembre 2004.
Negli ultimi anni gli sono state dedicate numerose retrospettive in importanti spazi museali tra cui, la più recente, presso il MEF nel 2014, in occasione dell’inaugurazione del nuovo museo a lui dedicato.