Tutti sanno del Far West. Il mito, tutto americano, della Nuova Frontiera. I cowboys, gli indiani ( povviamente cattivi, anche se stavano solo cercando di difendersi da invasione e genocidio), il generale Custer (che era solo colonnello, e un macellaio), John Wayne (indimenticabile e grandissimo), John Ford, la corsa all’oro, Ombre Rosse… e potrei continuare per pagine e pagine.
La potenza di Hollywood. Il grande Soft Power statunitense…
Tutti sanno del Far West. Pochi, quasi nessuno, del… Far East.
Non sto, ovviamente, parlando dell’Estremo Oriente come viene comunemente inteso. Quello è abbastanza noto, nonostante la diffusa ignoranza italiana in materia di geografia… e non parliamo di quella, pressocché totale, in geopolitica…
No. Sto parlando della Nuova Frontiera, ad oriente. Del Far East, se vogliamo usare questo termine, della Russia.
Perché vi fu una corsa russa verso Oriente. Molto meno nota di quella americana verso il suo West. Ma non meno affascinante. E interessante. Anzi…
È vero che non esiste nulla, nella cinematografia russo-sovietica, di anche lontanamente paragonabile a quella americana sul West. Eisenstein era un grande regista, ma i suoi sono film per nicchie intellettuali. Il giudizio dei più, sulla “Corazzata Potiomkin”, resta quello del ragionier Fantozzi.
E, poi, volete mettere il fascino di John Ford?
Però la corsa russa verso il, lontano, Est, è letteratura. Grande letteratura. Perché se gli americani possono citare, sul West, Fennymore Cooper (e ben poco altro di livello), i russi possono evocare l’ombra gigantesca, di Fëodor Dostoevski . “Memorie della casa dei morti”. Intenso, drammatico. Narrato in prima persona.
E, certo, le vastità della Siberia, la sua natura selvaggia e spietata, ma al contempo bellissima, compenetrano molti capolavori della letteratura russa. E non solo quelli che pongono l’accento sulla tragedia, epocale, della deportazione, come il, famoso, “Arcipelago Gulag” di Solzhenicijn, uno dei massimi capolavori del ‘900, o ” I racconti di Kolyma” di Solomov.
Vi è anche il viaggio ad est, l’avventura, il fascino per le culture dell’Oriente. La meraviglia di fronte ai paesaggi. Le distese ghiacciate, e la tundra che fiorisce, in estate, di mille colori. Le foreste, dove si sentiva bruire la tigre siberiana, e i picchi delle montagne più altre del mondo. Dove sorgono templi, e civiltà, antichissimi. E compenetrati di mistero.
È il mondo che incontra Jan Potoki, un nobile polacco dalla vita avventurosa, in un viaggio sino in Cina, per conto dello zar. Potoki era un avventuriero, che aveva combattuto i turchi sulle galee dei Cavalieri di Malta, e anche partecipato alla rivolta polacca contro gli Zar. Morì, per altro, in modo strano. Convinto di essere destinato a divenire un licantropo, si sparò una palla d’argento nella testa, in una notte d’inverno. Sotto la neve.
Ma era anche uno scrittore grandissimo. La sua unica opera narrativa, il “Manoscritto ritrovato a Saragozza”, scritto in francese, è il più grande romanzo del XVIII secolo.
E il suo resoconto del viaggio sino in Cina, passando per le steppe dell’Asia Centrale, è una, straordinaria, narrazione di avventure, uomini, civiltà…
E, poi, c’è Ossendovskij. “Bestie, uomini, dei”. È la vera epopea del Lontano Oriente. Della Nuova Frontiera russa nel momento, particolarmente critico, della guerra civile fra Rossi e Bianchi.
Paesaggi fantastici, animali meravigliosi e terribili. E uomini, forse ancora più terribili… cavalieri delle steppe, buriati, mongoli. Lama tibetani e condottieri che sembrano usciti da un remoto passato.
Come Gyglay Khan che strappa Urga ai comunisti cinesi, ed entra in città preceduto da tre lance incendiate. Tre giorni di saccheggio e massacro.
Su tutti la figura, storica e leggendaria insieme, del Barone von Ungern. Il Barone sanguinario, che comandò l’Armata Bianca a cavallo, nell’ultima, disperata, resistenza contro i bolscevichi.
Figura, come dicevo, che trascolora nella leggenda. Perché il Grande Utuktu di Ulan Bator -terza carica del lamaismo – riconobbe in lui una incarnazione irata del Bodisattva, Eruka. E gli consegnò la bandiera con la svastikà. Il simbolo che aveva preceduto le orde di Gengiz Khan.
Si dice che il suo nome risuoni ancora nei canti dei mongoli e dei buriati accanto ai fuochi dei bivacchi. E che si narri dei suoi rapporti con il Re del Mondo. Tanto che si vuole non sia morto fucilato dai rossi. Ma che si sia nascosto nel Regno Segreto. Ove riposa e attende.
Miti, uomini, storie. Un grande épos. L’épos, troppo spesso ignorato, del Far East.