La richiesta di mega finanziamento pubblico avanzata da Fca ha suscitato proteste pressoché generali. Con la immancabile, squallida, eccezione dei sindacati di regime.
Al di là dei cavilli legal burocratici che renderebbero legittima la richiesta di soldi pubblici, per consentire al gruppo di distribuire un cospicuo dividendo agli azionisti, è la situazione nel suo complesso ad essere emblematica.
Fca ha scelto di spostare all’estero sia la sede legale sia quella fiscale. Ed il lìder minimo ha difeso gli Elkann, spiegando che la colpa è del governo che non cambia un sistema fiscale oppressivo nei confronti delle aziende. Non una parola, ovviamente, per l’oppressione fiscale nei confronti delle famiglie. Che devono pagare per poter mantenere gli azionisti di Fca. Ma il gruppo ha trasferito all’estero anche gran parte della produzione. Ed i sindacati? Muti. Perennemente in attesa della realizzazione di quei piani industriali che, come ha giustamente ricordato persino Calenda, non vengono mai realizzati.
Però la vicenda è emblematica anche rispetto al rapporto tra italiani e Fca/Fiat. Un rapporto incrinato, come dimostra anche il calo delle vendite anche prima del coronavirus. Non è più l’auto italiana per gli italiani. È una vettura straniera, per di più con un pessimo rapporto qualità/prezzo. Così non stupisce che la rabbia monti, che vengano ricordati i continui aiuti pubblici, la vergognosa vicenda del regalo dell’Alfa Romeo (grazie a Prodi), la chiusura delle fabbriche, la distruzione di decine di migliaia di posti di lavoro.
Resistono, però, anche i difensori della “Feroce”. Quelli che attribuiscono alla Fiat il merito della crescita industriale del Paese, della creazione di opportunità di lavoro. Dimenticando il prezzo pagato per la modernizzazione in stile Fiat. Le orrende periferie sorte a Torino, lo spopolamento delle montagne, l’esodo dal Sud, l’inquinamento come dogma, la distruzione di un sistema ferroviario d’avanguardia per imporre la motorizzazione del Paese, l’eliminazione di ogni voce discordante o che mettesse in cattiva luce il modello Fiat (il caso Olivetti, ad esempio), la lotta contro ogni cultura alternativa, lo sfruttamento come prassi.
Dimenticano tutto, ma restano in pochi. Perché il fastidio nei confronti del marchio e della proprietà è cresciuto. E non basta che al tradizionale quotidiano di famiglia, la Busiarda, si sia aggiunta l’intera galassia ex debenedettiana, Repubblica in testa, impegnata per cercare di difendere gli Elkann e persino per farli apprezzare. Giornalismo di servizio ma sempre più inutile. Perché il risentimento cresce.
Oggi la proprietà ed i manager se ne fregano di tutto questo. L’Italia è sempre più marginale nelle strategie del gruppo che si appresta a diventare una costola della francese Psa. Dunque l’unico interesse è prendere soldi pubblici: tantissimi, benedetti e subito. A rilanciare l’immagine dovranno poi provvedere i francesi, nel frattempo gli azionisti saranno felici. I contribuenti italiani molto meno.