In Giappone è il mese in cui il pruno fiorisce. E i finnici, memori forse di remoti miti altaici, lo chiamano il Mese della Perla.
Per noi è Febbraio. Nome che, secondo la tradizione, gli venne dato da Numa, re sacerdote e legislatore, in onore di una divinità dai contorni indefiniti. Sive Deus, Sive Dea… Sia che tu sia un Dio, sia che tu sia una Dea. E infatti il culto tradizionale prevede un dio Februum, giunto dagli etruschi, e una Dea latina, Febris. Il cui altare sul Palatino viene rievocato da Carducci in una delle più suggestive Odi Barbare. D’innanzi alle Terme di Caracalla.

“Febbre, m’ascolta…” invoca il poeta.
Già, ascoltami, Febbre. E purifica la Città. Popolata di piccoli uomini, indegni di abitare i luoghi della grandezza e del mito. Dove dormono i Giganti di un passato dimenticato. Le ombre di ciò che è stato, e che solo i poeti, ormai, riuscivano a vedere.
Caratteraccio il professor Carducci. Aspro e caustico. Di fatto invoca la Febbre purificante dei moderni parassiti che infestano il corpo dormiente della Dea Roma…
Perché in latino “februm” significa purificazione. E Febbraio era, in origine, il mese dei riti purificatori in preparazione del nuovo anno. Che si apriva con Marzo. Ed era anche il mese delle febbri, inclementi in una città che si ergeva su colli circondati da acquitrini malsani.
Associazione non casuale, ché già Ippocrate aveva ben chiaro come la febbre fosse una difesa dell’organismo. Che così si liberava dalle minacce che lo potevano ledere e degradare…
Febraio è anche mese in cui le ombre ormai si ritraggono più rapidamente. E, nel cielo freddo, l’Aurora diviene sempre più luminosa. Accarezza la terra con dita di rosa, come dice Omero. E le sue guance di fanciulla arrossiscono. Come nel RigVeda. Miti che si legano con fili sottilissimi, tesi fra distanze enormi, migrazioni di popoli. Canti di stirpi guerriere.
Così sempre Carducci. Sempre le sue Odi…
Sentivo ancora quei versi nella mente, come una risonanza, stamane, mentre passeggiavo sul presto. Per le vie quasi deserte di una città fredda. Lì ho spiegati proprio ieri agli studenti della V. Ventidue paia d’occhi che mi fissavano al di sopra di mascherine di diverse fogge e colori. Occhi tristi, che mi dicevano più delle parole il senso incombente, l’incubo della solitudine, della disperazione. Della paura.

“Febbre m’ascolta!” mi sono lasciato trascinare ed ho alzato il tono. Persino il Boro si è scosso con un sussulto.
“Che je pija Prof.?” ha detto…
Già, che mi piglia?
Forse… Forse vorrei avere davvero la capacità degli antichi di evocare Febbre con una formula rituale. Di scatenare la sua ira purificatrice. Per restituire vita ai Giganti dormienti. E ridare a questi ragazzi quel presente, e quel futuro, di cui sono stati depredati…
Per scacciare i parassiti. I virus, quelli veri, che corrompono la città. Che la rendono squallida desolazione…
“Febbre, m’ascolta!”
“Che le pija prof.? Se sente male?”
No, sto bene. Sorrido. È solo che quest’ode… mi piace in modo particolare…
Mi guardano perplessi…